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LEAN INNOVATION MANAGEMENT nella digitalizzazione della supply chain

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Abstract and Figures

Studio della metodologia Lean Innovation Management come combinazione dei principali modelli di innovazione e miglioramento aziendali, tra cui BPR, BPM, Lean, Design Thinking, Design Sprint, Agile, DevOps, Lean Startup. Applicazione del modello operativo in un'attivita aziendale di digitalizzazione della supply chain, con sviluppo di Digital Twins di bolle di trasporto.
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DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA DELL’INFORMAZIONE
Corso di Laurea
in Ingegneria delle Tecnologie per l’Impresa Digitale
Relazione Finale
LEAN INNOVATION MANAGEMENT
nella digitalizzazione della supply chain:
Il caso MPJ Group
Relatore: Chiar.mo Prof. Michele Melchiori
Laureando:
Claudio Onorati
Matricola n. 733895
INDICE
Introduzione ........................................................................................................ 1
1. Digitalizzare la Supply Chain .................................................................. 4
1.1. Origini e Obbiettivi della Digitalizzazione della SC ......................................... 5
2. Lean Innovation Management ................................................................. 8
2.1. Introduzione ai modelli ..................................................................................... 9
2.2. Business Process Reengineering e Business Process Management ................ 11
2.3. Lean Production .............................................................................................. 19
2.4. Design Thinking e Design Sprint .................................................................... 25
2.5. Agile e DevOps ............................................................................................... 35
2.6. Lean Startup .................................................................................................... 44
2.7. Lean Innovation: Combinare le metodologie .................................................. 53
3. Analisi As-Is dell’Azienda ...................................................................... 58
3.1. Metalprint S.p.A. ............................................................................................. 59
3.2. Flusso Produttivo ............................................................................................. 62
3.3. Flusso logistico ................................................................................................ 65
3.4. Personale supply chain .................................................................................... 66
4. Sviluppo del Progetto .............................................................................. 69
4.1. Roadmap di Digitalizzazione .......................................................................... 70
4.2. Digitalizzazione Bolle Materia prima ............................................................. 73
4.3. Digitalizzazione Bolle da Terzisti ................................................................... 81
4.4. Unione dei progetti .......................................................................................... 88
Conclusioni ........................................................................................................ 90
Ringraziamenti ................................................................................................. 91
Indice delle Figure ............................................................................................ 92
Bibliografia ....................................................................................................... 93
A G. che ha reso possibile tutto ciò,
quando io ancora non ci credevo.
1
Introduzione
Durante il mio percorso di studi in ingegneria delle tecnologie per l’impresa digitale ho avuto
la possibilità di compiere un tirocinio formativo aziendale. Sono entrato in contatto con MPJ
Group stipulando una collaborazione per la digitalizzazione d’impresa. Sono stato assegnato
all’ufficio supply chain con il compito di analizzare gli attuali processi logistico-produttivi,
individuando le principali criticità e sviluppando soluzioni digitali che rendessero più efficiente
l’organizzazione. Da una prima analisi ho notato come non fosse sufficiente sviluppare un
semplice progetto tecnologico, bensì, il lavoro richiesto, necessitava una prima mappatura degli
attuali processi aziendali, la ricerca, l’analisi e l’ordinamento delle principali criticità in base a
un valore di priorità, sviluppando così una roadmap di digitalizzazione a lungo termine. Da ciò,
lo sviluppo di una soluzione creativa, la sua prototipazione, il suo test, la validazione e infine
la sua presentazione alla direzione. Per poter compiere tale attività è stato quindi necessario
applicare una metodologia operativa che mi supportasse attraverso l’attuazione di specifiche
fasi di lavoro con l’uso di strumenti operativi concreti. L’attività di analisi e miglioramento
aziendale è storicamente associata alla figura professionale del Lean Manager e attualmente
grazie all’introduzione delle tecnologie tipiche dell’industria 4.0, è assegnata agli Innovation
Manager o più precisamente ai Lean Innovation Manager. Il loro compito è portare una filosofia
di miglioramento continuo in azienda attraverso una progressiva e programmata introduzione
di tecnologie digitali a supporto delle operazioni. In questo elaborato ho ripercorso le principali
tappe storiche che hanno portato alla nascita di tale approccio descrivendo gli strumenti
operativi necessari all’attività di miglioramento dei processi aziendali. Successivamente ho
presentato la mia esperienza aziendale che mi ha portato a sviluppare due real-time digital twin
a supporto delle attività della supply chain.
Il seguente elaborato è suddiviso in quattro capitoli, ovvero “Digitalizzare la Supply
Chain”, “Lean Innovation Management”, “Analisi As-Is dell’Azienda” e “Sviluppo del
Progetto”.
2
Nel primo capitolo viene affrontato il tema della digitalizzazione d’impresa, in
particolare nell’area supply chain, come strumento di efficientamento aziendale. Viene
descritto il mondo dell’industria 4.0 con le relative tecnologie e obbiettivi proposti per
raggiungere lo stato di smart factory. Viene introdotto il termine “Industria 5.0” in riferimento
alla nuova rivoluzione sostenibile, sociale, resiliente ed infine viene descritto il ruolo della
supply chain nell’organizzazione esponendo le principali innovazioni tecnologiche digitali che
possono supportare i quotidiani processi aziendali.
Il secondo capitolo descrive i principali modelli di miglioramento e innovazione
aziendale utilizzati come riferimento per l’attività di Lean Innovation Management; in
particolare sono stati analizzati modelli nativamente sviluppati come supporto all’analisi e al
miglioramento dei processi aziendali come il Business Process Reengineering (BPR), il
Business Process Management (BPM) e la Lean Production. Sono stati individuati modelli
provenienti dal mondo del design come approccio human-centric a supporto dell’attività di
sviluppo di soluzioni digitali creative supportate dai feedback delle persone, come il Design
Thinking (DT) ed il Design Sprint (DS). Sono state rappresentate le principali metodologie
operative di sviluppo software come modelli di lavoro iterativo e progressivo, ovvero la
metodologia Agile e DevOps. È stata riportata la metodologia Lean Startup in quanto
metodologia di sviluppo da un’idea innovativa ad un modello di business ed infine è stata svolta
un’analisi complessiva di tutte le metodologie riportando i loro punti di forza e le loro principali
criticità, descrivendo un nuovo approccio di miglioramento continuo aziendale che riassumesse
tutti gli strumenti sviluppati in passato.
Il terzo capitolo è dedicato all’analisi complessiva dello stato delle cose (As-Is) del
flusso produttivo e logistico in MPJ Group attraverso i principali strumenti precedentemente
descritti. È stato svolto uno studio complessivo dell’organizzazione, delle aree aziendali e in
particolare dell’ufficio supply chain, mappando le mansioni svolte dai singoli operatori
dell’ufficio e individuando le attività maggiormente gravose e a basso valore aggiunto per le
persone.
Il quarto capitolo descrive l’implementazione di una soluzione di digital twin aggiornata
in tempo reale relativa alle bolle di accompagnamento per snellire il flusso logistico in ingresso
di materia prima. Il progetto ha l’obbiettivo di sincronizzare la consegna della merce con
l’inserimento dei dati corretti a gestionale, potendo ubicare e versare in tempo reale a
magazzino la merce appena consegnata. Il flusso digitale delle informazioni permette di ridurre
3
gli errori, ridurre il carico di lavoro all’ufficio supply chain, attualmente incaricato di riportare
manualmente le informazioni cartacee a gestionale, sincronizzare la consegna della merce con
il suo versamento a magazzino e riportare uniformità tra i dati presenti a gestionale visibili
dall’intera organizzazione e le informazioni reali.
A seguito del completamento del primo progetto è stato avviato il secondo round
individuato nella roadmap di digitalizzazione della supply chain. Il secondo progetto interessa
il magazzino conto terzi, nella ricezione della merce, nel controllo attraverso un’attività di
pesata e nell’inserimento delle bolle a gestionale. La soluzione è stata riadattare parte del lavoro
svolto nel primo round attraverso lo sviluppo di un sistema digitale che comprendesse la
ricezione ed il controllo automatico di un digital twin dei documenti di trasporto provenienti
dai terzisti. Per perseguire l’obiettivo è stato inoltre necessario sviluppare un’interfaccia delle
pese con il gestionale aziendale per digitalizzare un secondo controllo dei dati al momento della
consegna della merce.
Infine, a seguito di un confronto con la direzione, sono stati unificati i progetti, creando
uno studio complessivo di entrambe le soluzioni supportate da un’analisi di ritorno economico
approfondita.
4
1. Digitalizzare la Supply Chain
Nel seguente capitolo viene affrontato il tema dell’innovazione digitale, con particolare
riferimento allo sviluppo di soluzioni tecnologiche a supporto dell’area supply chain. Sono
ripercorse le principali tappe storiche relative alla nascita del termine “Industria 4.0”, definendo
le sue caratteristiche peculiari e le sue tecnologie abilitanti. Viene introdotto il concetto di
“Industria 5.0” come nuovo paradigma di rivoluzione industriale, non come sviluppo
tecnologico, ma come sviluppo di valore per l’intera organizzazione. Successivamente viene
presentata la funzione aziendale dell’area supply chain, descrivendo le attività richieste per tale
dipartimento e le attuali sfide richieste per soddisfare i clienti. Infine, sono descritte alcune delle
soluzioni tecnologiche digitali specifiche per ottimizzare tale divisione aziendale, descrivendo
i principali vantaggi ottenibili attraverso la loro implementazione in azienda.
5
1.1. Origini e Obbiettivi della Digitalizzazione della SC
Lo sviluppo digitale dell’infrastruttura aziendale è parte della quarta rivoluzione industriale. Il
termine Industria 4.0 è stato coniato da un team di ricercatori tedeschi nel 2011 (Kagerann,
Lucas, & Wahlister, 2011) come strategia tecnologica nazionale e rappresenta lo sviluppo e
l’integrazione di sistemi produttivi cyber-fisici (CPPS), ovvero l’integrazione ottimale di
sistemi produttivi con le capacità dell’uomo tramite reti di informazioni, al fine di raggiungere
lo stato di avanzamento tecnologico denominato smart factories. Il termine viene
pubblicamente presentato alla fiera di Hannover (Hannovermesse, s.d.) nello stesso anno. Nei
seguenti anni diverse associazioni tedesche con più di 6.000 aziende associate chiedono di
proseguire gli studi relativi al progetto I 4.0, portando nell’Aprile del 2013 alla nascita di una
cooperazione soprannominata “Plattform Industrie 4.0”, responsabile della standardizzazione
del modello. Nel 2015 il programma di cooperazione presenta un modello di riferimento per la
transizione industriale 4.0: il “Reference Architectural Model Industrie 4.0” (Plattform
Industrie 4.0, 2015). Il RAMI 4.0 è una rappresentazione tridimensionale che mostra come
affrontare il tema dell’I 4.0 in modo strutturato. La mappa presenta nell’asse X il ciclo di vita
del prodotto (dallo sviluppo alla produzione sino al suo mantenimento), nell’asse Y la gerarchia
aziendale (dall’organizzazione fino ai dispositivi di campo) e nell’asse Z i livelli di architettura
(business, funzionale, informazione, comunicazione, integrazione, asset) (Platform Industrie
4.0, 2018). Nel 2016 il World Economic Forum rivela l’importanza del nuovo paradigma
industriale sottolineando l’impatto economico che esso genererà nei successivi anni (World
Economic Forum, 2016). A seguito di questi eventi numerose nazioni presentano il loro piano
nazionale di sviluppo tecnologico, tra cui “Industrial Internet Consortium” (USA), “Industria
4.0” (Italia), “Produktion 2030” (Svezia), “Made in China 2025” (Cina) e “Society 5.0”
(Giappone). Secondo il piano nazionale “Industria 4.0” promosso dal Ministero dello Sviluppo
Economico italiano le principali tecnologie abilitanti all’I 4.0 sono Advanced Manufacturing
Solutions come ad esempio la robotica collaborativa, Additive Manufacturing ovvero stampa
3D, Argumented Reality come sistemi VR/AR, Simulation per l’analisi simulata dei sistemi
produttivi, Horizontal/Vertical Integration in quanto integrazione di informazioni lungo la
catena del valore dal fornitore al consumatore, Industrial Internet sotto forma di comunicazione
multidirezionale tra processi produttivi e prodotti, Cloud per soluzioni
6
SAAS/PAAS/IAAS/NAAS, Cyber-Security in quanto necessarie per proteggere l’intera
infrastruttura aziendale digitale e Big Data & Analytics come raccolta e rielaborazione di una
grande quantità di dati per decisioni strategiche, manutenzione predittiva e altre soluzioni
(Ministero dello Sviluppo Economico, 2022). I principali obbiettivi di un’integrazione di
soluzioni digitali in azienda sono la maggiore flessibilità ottenuta attraverso produzioni
intelligenti a costi della produzione di scala, la maggiore velocità dalla prototipazione alla
produzione, la maggiore produttività, la migliore qualità e la maggiore competitività. Tutto ciò
è possibile grazie ad un’introduzione graduale di tecnologie al servizio delle imprese, in un
orizzonte a lungo termine di efficientamento aziendale.
Di recente è nato un nuovo paradigma industriale, capace di poter portare ad un’ulteriore
rivoluzione industriale: l’“Industria 5.0”. L’espressione originariamente proposta nel 2015 al
“5th Science and Technology Basic Plan guidato dal governo giapponese (Governo del
Giappone, 2015) sotto il nome di “Society 5.0” e presentata al mondo nel 2017 dal primo
ministro Shinzo Abe alla fiera CeBIT di Hannover come propria visione del futuro
dell’automazione industriale (Il primo ministro del Giappone e il suo gabinetto, 2017)
(Granrath, 2017) rappresenta un approccio human-centric, sostenibile e resiliente al fine di
raggiungere uno stato di miglioramento non solo economico, ma anche sociale (Xu, Lu, Vogel-
Heuser, & Wang, 2021) (Granrath, 2017). Da questa prima definizione è possibile comprendere
la principale differenza tra l’I 4.0 e la I’5.0, in quanto la prima viene definita come una
rivoluzione technology-driven, mentre la seconda come value-driven, in quanto richiede che lo
sviluppo di nuove tecnologie si basi allo stesso tempo sullo sviluppo di valore economico,
ambientale e sociale. Il nuovo modello di S 5.0 pone particolare enfasi sull’uomo, come
elemento fondamentale per l’organizzazione, poiché portatore di valore aggiunto nella catena
produttiva; è quindi necessario combinare la forza degli uomini a quella delle macchine per
sviluppare sistemi capaci di far emergere il potenziale delle persone. È nel 2020 che la
Commissione Europea propone una definizione per il neologismo “Industry 5.0” (Müller,
2020), definendolo uno strumento capace di Raggiungere obiettivi sociali che vadano oltre
l'occupazione e la crescita per diventare un fornitore di prosperità, facendo che la
produzione rispetti i limiti del nostro pianeta e ponendo il benessere del lavoratore al centro
7
del processo produttivo
1
. Da questa serie di eventi numerose aziende, imprese, organizzazioni
e individui si uniscono per fondare nel 2022 la “Industry 5.0 Strategic Alliance”, la prima
alleanza in ambito I 5.0 con lo scopo di ridurre o prevenire sprechi fisici, sociali, urbani, di
processo e di tempo. A seguito di ciò la Commissione Europea ha proposto nell’anno seguente
l’“Industry 5.0 Community of Practice(CoP 5.0) come sistema di innovazione e di sviluppo
di linee guida per la transizione dei paesi europei all’I 5.0. Sebbene sia ancora un tema in fase
di esplorazione, il paradigma di I 5.0 può aiutare l’organizzazione a perseguire gli obbiettivi
economici e sociali secondo un’ottica aggiornata rispetto al modello precedente portando allo
sviluppo di soluzioni digitali riassumibili come disruptive innovation.
In un’infrastruttura aziendale una delle principali aree in cui è fondamentale ridurre il
lead time produttivo, ridurre gli sprechi, sviluppare resilienza e rafforzare la propria
competitività economica è la supply chain. La filiera logistico-produttiva rappresenta l’insieme
delle parti coinvolte direttamente o indirettamente a soddisfare i bisogni del cliente, ciò include
la manifattura, la fornitura, la logistica, la rivendita ed i clienti stessi (Chopra, Meindl, & Vir
Kalra, 2016). La supply chain è un sistema dinamico che si basa su un flusso continuo di
informazioni, prodotti e valore in differenti fasi operative. Ognuna di queste fasi viene
amministrata ad alto livello dall’area supply chain, in particolare nelle attività di analisi
strategica, pianificazione della produzione, riapprovvigionamento, gestione del lavoro conto
terzi e gestione della logistica in ingresso, intermedia e in uscita. L’obbiettivo finale della
supply chain è creare valore (surplus) sottraendo al valore del prodotto finale (valore del cliente)
i costi complessivi della catena di fornitura: maggiore sarà l’efficienza della supply chain,
maggiore sarà il profitto per l’organizzazione.
Uno degli approcci più efficaci per snellire i processi logistico-produttivi è introdurre
tecnologie digitali a supporto delle operazioni. Sviluppare una digital supply chain significa
applicare tecnologie 4.0 al fine di sviluppare fabbriche intelligenti, magazzini intelligenti,
logistica intelligente, sistemi basati sul Cloud e piattaforme digitali attraverso attività di
analytics e data science o attraverso tecnologie emergenti quali l’intelligenza artificiale, la
blockchain, i digital twins, l’Industrial Internet of Things (IIoT), le reti 5G, l’edge ed il fog
computing (MacCarthy & Ivanov, 2022).
1
Julian Müller, Enabling Technologies for Industry 5.0 Results of a workshop with Europe’s technology leaders,
p.5, Commissione Europea, Direzione generale per la ricerca e l'innovazione, 2020
8
2. Lean Innovation Management
Il seguente capitolo descrive il percorso storico che ha portato alla nascita di un nuovo
approccio di gestione dell’innovazione snella. Sono riportati i principali modelli di innovazione
provenienti da differenti ambiti aziendali. In particolare, vengono presentati i modelli Business
Process Reengineering (BPR) e Business Process Management (BPM) per la riprogettazione
dei processi aziendali, Lean Production per la manifattura, Design Thinking (DT) e Design
Sprint (DS) per lo sviluppo di idee creative secondo un approccio human-centric, Agile e
DevOps come modelli di sviluppo di progetti agili, incrementali e iterativi e infine Lean Startup
in quanto strumento di sviluppo di idee in modelli di business. Ogni modello descritto riporta
inoltre le proprie fasi operative con i relativi strumenti di lavoro. Al termine del capitolo
vengono analizzati singolarmente i vantaggi e le principali criticità di ogni modello,
proponendo un nuovo approccio al miglioramento continuo aziende ispirato da ognuno dei
precedenti modelli.
9
2.1. Introduzione ai modelli
L’attività di miglioramento dei processi aziendali dev’essere guidata da una metodologia
tecnica che aiuti l’organizzazione ad entrare nel processo di innovazione. Negli anni sono nate
diverse teorie che affrontano tematiche specifiche (Lean nella manifattura, Design Thinking nel
design, Agile nello sviluppo di software, Lean Startup nella creazione di nuovi prodotti…) ma
nessuna ha mai cercato di fornire uno strumento universale por portare un’innovazione
trasversale in ogni ambito dell’azienda. Negli ultimi anni, infatti, gli strumenti tradizionalmente
utilizzati nell’attività di riprogettazione dei processi aziendali si sono resi inefficaci, tanto da
dover attingere da modelli esterni al contesto per poter operare in una modalità più efficiente.
In questo panorama nasce il termine Lean Innovation Management come strumento universale
per l’innovazione, uno strumento che prende ispirazione da tutti i modelli di sviluppo più recenti
e che ancora oggi è in fase di accrescimento.
10
Figura 1 Timeline dei modelli di innovazione
Prima di poter descrivere il modello Lean Innovation, è necessario affrontare le diverse
metodologie che hanno ispirato questo nuovo modo di affrontare il cambiamento.
11
2.2. Business Process Reengineering e Business Process Management
L’attività di Business Process Reengineering (BPR) è tradizionalmente la metodologia principe
nell’analisi e riprogettazione dei processi aziendali. È uno strumento standard e universale,
utilizzato sin dagli anni ‘90 come guida per una profonda e straordinaria riprogettazione di
processi aziendali. Esso si contrappone al modello di Miglioramento Continuo ordinario (Lean).
Di seguito vengono riportate le tappe storiche più importanti, viene definito il modello e
vengono presentati i suoi punti di forza e le principali criticità che hanno portato a rivalutare il
modello in favore di una nuova modalità di miglioramento dei processi aziendali.
Le origini del modello Business Process Reengineering risalgono al 1990 quando
Michael Hammer, ex docente di informatica del Massachusetts Institute of Technology (MIT),
pubblica l’articolo (Hammer, 1990) che rivoluzionerà la gestione dei processi aziendali nei
decenni successivi. L'articolo si sofferma sull’analisi dei reali fattori di inefficienza in azienda,
spesso ricollegati erroneamente alla mancanza di tecnologie digitali invece che alle forme di
lavoro che non portano valore aggiunto (Hammer, 1990). Un’idea simile venne sviluppata nello
stesso anno da Thomas H. Davenport e James E. Short allora membri del centro di ricerca di
Ernst & Young (Davenport & Short, 1990). La nuova idea di analizzare e riprogettare i processi
produttivi aziendali per migliorare la propria competitività viene presto adottata in numerose
imprese e diverse figure note nel mondo del management, tra cui Peter Drucker e Tom Peters,
accettano e promuovono il BPR come nuovo strumento per ri-ottenere il successo in un mondo
dinamico (Stewart, 1993). Negli anni successivi, un numero crescente di pubblicazioni, libri e
articoli di riviste, è stato dedicato al BPR, e molte società di consulenza hanno intrapreso questa
tendenza e sviluppato metodi BPR. Dal 1993, anno della pubblicazione del libro di Hammer e
Champy “Reengineering the corporation” (Champy & Hammer, 1993) oltre il 60% delle società
Fortune 500 dichiara di aver iniziato il processo di BPR o ha intenzione di approcciarsi
(Hamscher, 1994). Verso la fine degli anni ‘90 il BPR inizia a perdere l’entusiasmo iniziale
(Dumas, La Rosa, Mendling, & Reijers, 2013) principalmente per i seguenti 3 motivi: non è
stato individuato un gruppo specifico che si occupi di BPR ed il termine è abusato in molti
ambiti anche lontani dall’attività originale. Il modello propone un cambiamento radicale delle
attuali attività operative, lo stesso Michael Hammer nel suo documento promuove un approccio
eccessivamente radicale, spesso controproducente. I tempi non sono ancora maturi, le
12
tecnologie a supporto sono molto costose, difficili da programmare e spesso lontane
dall’obbiettivo desiderato. Sono necessari alcuni anni affinché le tecnologie maturino e siano
effettivamente rivoluzionarie nelle imprese. Il modello riprende vigore grazie alla nascita di
nuovi sistemi IT, tra cui gli Enterprise Resource Planning (ERP) e i Workflow Management
Systems (WMS). Nel 1993 nasce la Workflow Management Coalition (WfMC), un consorzio
formato per definire gli standard per l'interoperabilità dei sistemi di gestione dei flussi di lavoro.
Nel 1995 definiscono il loro primo standard: il Workflow Reference Model, che pone le basi
della maggior parte dei sistemi software di gestione dei processi aziendali (BPM) e dei flussi di
lavoro oggi in uso (Hollingsworth, 1995). Negli anni 2000 il gruppo di consulenza Gartner
conia il termine Business Process Management Suite (BPMS) riferendosi ad un'ampia gamma
di applicazioni software di gestione dei processi. Dagli anni 2000 il termine Business Process
Re-engineering (BPR) è stato negli anni sostituito dal più ampio termine Business Process
Management (BPM), nascono diverse pubblicazioni a supporto ed il modello riprende vigore.
La Reingegnerizzazione dei Processi Aziendali (BPR) è un approccio per riprogettare il
modo in cui viene svolto il lavoro per supportare al meglio la missione dell'organizzazione e
ridurre i costi. La reingegnerizzazione inizia con una valutazione di alto livello della missione
dell'organizzazione, degli obiettivi strategici e delle esigenze dei clienti (Accounting and
Information Management Division, 1997). Il libro “Business Process Reengineering:
Breakpoint Strategies for Market Dominance” afferma: Il BPR comporta una drastica
riprogettazione dei processi aziendali, delle strutture organizzative e dell'uso della tecnologia
per ottenere "svolte" nella competitività aziendale
2
. I dirigenti aziendali negli anni si muovono
verso un’attività ordinaria di miglioramento dei processi aziendali prediligendo al termine BPR
il concetto di BPM. La Gestione dei Processi Aziendali (BPM) è una Disciplina della gestione
delle operazioni in cui le persone utilizzano vari metodi per scoprire, modellare, analizzare,
misurare, migliorare, ottimizzare e automatizzare i processi aziendali
3
è parte integrante delle
“normali” attività di management (Jeston & Nelis, 2006). La principale differenza tra Process
2
Henry J. Johansson, Patrick McHugh, William A. Wheeler, III, A. John Pendlebury, Business Process
Reengineering: Breakpoint Strategies for Market Dominance, Wiley, 1993
3
Lalic, Bojan; Majstorovic, Vidosav; Marjanovic, Ugljesa; von Cieminski, Gregor; Romero, David, Advances in
Production Management Systems. The Path to Digital Transformation and Innovation of Production Management
Systems, p.45, IFIP WG 5.7 International Conference, APMS 2020, Novi Sad, Serbia
13
Management e Project Management è che la gestione dei processi è un’attività che si occupa di
eventi ripetibili e prevedibili, che si verificano sempre nella stessa modalità. È importante
notare che il BPM non si occupa di migliorare il modo in cui vengono eseguite le singole
attività, piuttosto, si tratta di gestire intere catene di eventi, attività e decisioni che, in ultima
analisi, aggiungono valore all'organizzazione e ai suoi clienti (Dumas, La Rosa, Mendling, &
Reijers, 2013). Il modello si rivolge a tutti gli operation manager che si imbattono in attività
frequenti e constanti nel tempo. Viene spesso supportata dalle tecnologie digitali, sebbene esse
non siano prerogativa per il modello. È un modello che si basa sui processi e tutti i dirigenti che
si occupano di intere catene di eventi possono applicare tale modalità operativa.
Il BPR è un approccio ciclico straordinario ad un singolo intervento di miglioramento,
suddiviso in cinque fasi di sviluppo: “sviluppo di una vision aziendale e obbiettivi di processo”,
“identificare i processi da ridisegnare”, “comprendere e misurare gli attuali processi”,
“identificare leve IT”, “progettare e prototipare il processo” (Davenport & Short, 1990).
Figura 2 Ciclo Business Process Reengineering
14
La prima fase è lo “sviluppo di una vision aziendale e obbiettivi di processo”. Prima di
poter avviare l’attività di riprogettazione vera e propria è indispensabile aver individuato vision
e contesto aziendale (Davenport & Short, 1990), al fine di implementare una soluzione coerente
all’ambiente di lavoro, definendo le priorità degli obiettivi e fissando i traguardi più ambiziosi.
I principali punti di osservazione sono riduzione dei costi”, “riduzione dei tempi”, “qualità
dell’output” e “qualità della vita lavorativa” (Davenport & Short, 1990).
§ Riduzione dei costi: è uno degli elementi implicitamente fondamentali nell’attività di
miglioramento aziendale. Preso singolarmente il costo non può essere un indicatore
sufficiente, per questo viene sempre appoggiato ad altri indicatori.
§ Riduzione dei tempi: è il secondo elemento di miglioramento in questo modello in
termini di importanza. Solitamente vengono analizzati i singoli processi aziendali,
valutando ad esempio la possibilità di parallelizzare parte delle attività svolte
attualmente in maniera sequenziale.
§ Qualità dell’output: il risultato finale (fisico o non) di un processo è ciò che
effettivamente porta valore all’azienda. Analizzare i parametri di qualità e
successivamente migliorare l’output crea un valore aggiunto all’intera organizzazione.
§ Qualità della vita lavorativa: un obiettivo spesso trascurato della riprogettazione dei
processi è la qualità della vita lavorativa delle persone che li eseguono. Le tecnologie
digitali possono portare sia a una maggiore responsabilizzazione degli individui, sia a
un maggiore controllo dei processi stessi.
Questa fase è necessaria per poter definire gli obbiettivi per le fasi di sviluppo successive, anche
in termini quantitativi. Sebbene tali metriche siano difficili da quantificare a priori, esse
stimolano, ispirano e portano un pensiero creativo al team di lavoro (Davenport & Short, 1990)
guidandolo per l’intero progetto. È spesso difficile ottimizzare contemporaneamente tutti gli
obbiettivi sopra citati e nella maggior parte delle organizzazioni le pressioni più forti sono
mirate alla creazione di benefici tangibili. Tuttavia, nuove metodologie manageriali credono
nel valore degli obiettivi di apprendimento e di empowerment personale, per questo le
promuovono attivamente.
La seconda fase è “identificare i processi da ridisegnare”. La maggior parte dei processi
aziendali può essere ottimizzato tramite tecnologie IT, è necessario però individuare i processi
con maggiori criticità o i colli di bottiglia, analizzando lo sforzo dedicato alla loro
riprogettazione e al loro sviluppo. Questa fase è quindi fondamentale per poter identificare quali
15
siano le attività che portino maggiore ritorno economico all’organizzazione. Sono presenti due
approcci differenti nell’analisi dei processi aziendali: un approccio esaustivo e un approccio ad
alto impatto (Davenport & Short, 1990). Il primo approccio prevede di identificare
rigorosamente tutti i processi che possiede un’organizzazione e successivamente distinguerli in
termini di priorità. Il secondo approccio invece prevede lo studio esclusivo dei principali
processi aziendali oppure dei soli processi in conflitto con la vision aziendale e gli obbiettivi di
processo, riducendo il carico di lavoro. Sia che si utilizzi l'approccio esaustivo che quello ad
alto impatto, le aziende hanno trovato utile classificare ogni processo da riprogettare in termini
di punti di inizio e fine, interfacce e unità organizzative (funzioni o reparti) coinvolte, tra cui in
particolare l'unità cliente. È spesso necessaria una visione più ampia di quella che i responsabili
del singolo processo hanno, per questo processi inferiori vengono raggruppati in processi più
ampi. Lo strumento principale per questa fase è il business process inventory (Page, 2010), una
lista dei processi divisi per area aziendale con i relativi proprietari di processo. Per poter
identificare le priorità dei processi può essere utilizzata la process prioritiation table (Page,
2010), una tabella che analizza l’impatto, l’implementazione, lo stato attuale e il valore di un
processo. L'impatto di un processo viene quantificato come numero di persone coinvolte nel
processo aziendale e livello di esperienza dei dipendenti affetti da tale processo. L’indicatore
di implementazione viene rappresenta il time to market definito generalmente come tempo
totale dall’ideazione di un prodotto alla disponibilità dello stesso, il finanziamento inteso come
budget richiesto per il processo specifico, il tempo dal nuovo ciclo inteso come tempo che
intercorre prima del riuso dello stesso ciclo di sviluppo. Lo stato attuale viene individuato dal
valore di soddisfazione del cliente ovvero analizzando il processo dal punto di vista del cliente,
analizzando l’efficienza nella consegna dei risultati di process (“livello del dolore”), e
analizzando altri fattori. L’ultimo fattore di valore invece viene rappresentato come
beneficio/ritorno (quantitativo e qualitativo) e punteggio totale, riassuntivo dell’intero processo.
Dopo aver definito una scala per ogni indicatore ed il peso di ogni sezione, è possibile calcolare
i valori subtotali ed il valore totale di priorità del processo.
La terza fase è “comprendere e misurare gli attuali processi”. Le aziende hanno due
principali motivazioni per dover comprendere e misurare i processi esistenti prima di
riprogettarli. È necessario comprenderli per poter scoprire ciò che si può automatizzare ed è
necessario misurarli per poter definire una linea guida per miglioramenti futuri. Ad esempio, se
l'obiettivo della riprogettazione è quello di ridurre i tempi e le spese di un processo, è necessario
16
misurare con precisione i tempi e i costi consumati dal processo "non modificato". Tuttavia,
questa attività non può essere enfatizzata in modo eccessivo e in ogni caso, non può essere
svolta se non è contestualizzata in un’attività di miglioramento. Per rendere questa fase
efficiente è necessario studiare solo gli obiettivi specifici che sono al centro della
riprogettazione. Come per l'approccio all'identificazione dei processi ad alto impatto, di solito
è appropriata una filosofia "80-20" (Analisi di Pareto). A supporto dell’attività di misurazione
è possibile utilizzare lo strumento di process map (Page, 2010) come rappresentazione visuale
dei processi, visti come una serie di attività connesse. Nella mappa sono presenti contenitori e
connessioni, con identificatori che ne esplicano il contesto. All’interno dei contenitori viene
descritta l’attività in questione mentre nelle connessioni viene rappresentato l’output
dell’attività precedente e l’input dell’attività successiva. Sono presenti anche caselle
decisionali, espresse come rombo, un contenitore di fine espresso come rettangolo stondato ed
altri elementi grafici differenti per ogni team. In questa fase vengono utilizzati altri strumenti
per misurare il tempo per operazione ed i costi complessivi associati.
La quarta fase è “identificare leve IT”. Approcci precedenti prevedevano lo studio delle
tecnologie digitali solo in seguito all’analisi dei requisiti del progetto in fase di sviluppo. Il
problema con questo approccio è che le potenzialità degli strumenti IT possono e devono
influenzare l’attività di riprogettazione dei processi (Davenport & Short, 1990). È possibile
utilizzare il Brainstorming come strumento per trovare nuovi approcci al processo in analisi,
avendo sempre a disposizione una lista di generiche potenzialità IT da consultare durante
l’attività. In generale tutti gli strumenti digitali hanno la capacità di migliorare la coordinazione
e l’accesso alle informazioni a tutta l’organizzazione. In particolare, sono state definite le
seguenti capacità tipiche degli strumenti digitali: transazionale, geografica, automatica,
analitica, informazionale, sequenziale, gestione della conoscenza, tracciatura e
disintermediazione (Davenport & Short, 1990).
§ Transazionale: le tecnologie informatiche possono trasformare processi non strutturati in
transazioni di routine
§ Geografica: le tecnologie IT possono trasferire informazioni a larghe distanze
rapidamente, rendendo i processi geograficamente indipendenti
§ Automatica: l’IT può eliminare lavori umani ripetitivi
§ Analitica: le tecnologie digitali possono gestire metodologie analitiche complesse in un
processo
17
§ Informazionale: grazie alla tecnologia è possibile associare un numero elevato di
informazioni al processo
§ Sequenziale: l’IT può gestire numerose attività di un processo sequenziale, spesso
operando parallelamente
§ Gestione della Conoscenza: gli strumenti digitali possono catturare e disseminare
conoscenze e competenze per migliorare il processo
§ Tracciatura: le tecnologie possono fornite un tracciamento dettagliato dello stato delle
attività, degli input e degli output.
§ Disintermediazione: il digitale può connettere direttamente due parti in un processo che
solitamente richiederebbe una terza parte (intermediario)
Queste sono solo alcune delle potenzialità delle tecnologie IT, per questo lo stesso modello
richiede di sviluppare una propria lista interna delle capacità IT aggiornate nel tempo.
L'elemento distintivo del BPR è l'uso delle risorse digitali come opzione di progettazione invece
che come semplice strumento di supporto.
La quinta e ultima fase del modello BPM è “progettare e prototipare il processo”.
Essendo il modello BPR ciclico, la fase di progettazione e prototipazione non è l’ultima, bensì
essa può essere vista come punto iniziale dell’iterazione successiva. L’attività si basa sulle
informazioni raccolte del processo in analisi nella fase precedente e attraverso un’attività di
brainstorming avviene l’ideazione, la progettazione e la prototipazione del nuovo processo,
migliorato iterazione dopo iterazione. È necessario l’uso di strumenti digitali e di progettazione,
criteri generali di progettazione, Prototipazione organizzativa. A seguito dell’identificazione
degli step da compiere per poter modificare i processi attuali, è necessario definire un piano di
implementazione (Page, 2010) con relative tempistiche approssimative. In questo modo
l’attività di BPR viene frammentata in sottofasi rapide da prototipare.
Il modello BPM invece prevede una sesta fase, ovvero “portare miglioramenti continui”.
L’elemento innovativo del Business Process Management rispetto al BPR è il passaggio da
interventi di miglioramento straordinario ad una gestione e miglioramento continui dei processi
aziendali. Tale modalità operativa porta ad avere enormi vantaggi in termini di riduzione del
rischio e analisi continuativa dei fattori di criticità dei processi aziendali. Il modello BPM si
basa sulle seguenti attività, svolte continuamente in modalità ciclica: valuta, testa, traccia,
esegui. Nella fase di valutazione vengono analizzati i processi aziendali per identificare le
opportunità di miglioramento. A seguito di un’analisi, progettazione e prototipazione di un
18
nuovo processo, avviene la fase di test per analizzare il suo valore rispetto alla vision aziendale.
La fase di tracciatura tiene monitorato il nuovo processo messo in atto, valutando se è avvenuto
un effettivo miglioramento. L’ultima fase è di esecuzione; in questa fase viene portato il
processo innovativo all’intera organizzazione.
L’approccio di riprogettazione dei processi aziendali è molto efficace nelle singole
attività di miglioramento aziendale. È un approccio veloce che ha il diretto obbiettivo di
migliorare drasticamente un processo aziendale. Questo è anche l’elemento fortemente criticato
del BPR che ha portato alla nascita del BPM come approccio continuativo. Altro punto di critica
del modello è l’approccio radicale che richiede il modello, lo stesso Michael Hammer utilizza
il motto Think Big
4
(Hammer, 1990) per descrivere il processo di innovazione. Questa
modalità di esecuzione porta a sostenere costi maggiori e ad esporti a rischi maggiori rispetto
ad altri modelli che operano su continue, piccole iterazioni. Infine, il modello BPR e BPM sono
orientati ai processi, mettendo in secondo piano l’aspetto umano del cambiamento.
4
Michael Hammer, Reengineering Work: Don’t Automate, Obliterate, p.11, Harvard Business Review, 1990
19
2.3. Lean Production
La metodologia Lean Production è stata il punto di riferimento per decenni nell’attività di
miglioramento continuo aziendale. La metodologia prevede tecniche concrete specifiche per la
produzione manifatturiera.
Per poter comprendere a pieno le origini del modello è necessario descrivere le tappe
fondamentali che hanno portato a questo necessario cambiamento nella produzione
manifatturiera. È durante la seconda rivoluzione industriale che nell’impianto produttivo della
Ford ad Highland Park si sperimenta e perfeziona un nuovo modello produttivo basato
principalmente su due capisaldi: movimentazione in linea dei semilavorati da una postazione
alla successiva e standardizzazione dei componenti da assemblare. Con questi obbiettivi
innovativi per l’epoca nasce nel 1913 la prima catena di montaggio ottimizzata nella
manifattura. Il modello presenta ben presto vantaggi evidenti, come riportato da riviste locali
negli anni successivi e in breve tempo il modello fordista diventa uno standard in tutte le
fabbriche. Ciò ha portato progressivamente a rendere le fabbriche molto vaste e difficili da
gestire. A causa dell’estrema settorializzazione delle persone in produzione era spesso assente
una visione globale della situazione causando continue sovraproduzioni o sottoproduzioni
dovute di una mancata comunicazione nell’organizzazione, come afferma Alfred Sloan,
all’epoca presidente di General Motors. Sloan sviluppa in seguito un modello organizzativo
basato su divisioni aziendali decentralizzate con maggiore potere decisionale. Grazie alla sua
idea innovativa Sloan risolve anche il problema di bilanciare la necessità di standardizzazione
dei componenti con la gestione della diversità di modelli dei prodotti per soddisfare l’enorme
varietà nella domanda dei clienti. Tuttavia, Sloan non modifica l’idea proposta da Ford di
vedere i lavoratori in produzione come semplici componenti di un sistema produttivo più
grande. Bisogna aspettare gli anni 50 per poter vedere un utilizzo globale del modello a catena
di montaggio, rendendo le tre principali compagnie automobilistiche americane (GM, Ford e
Chrysler) meno competitive sul mercato rispetto ad altri brand europei. Il vantaggio tecnologico
sviluppato negli anni 60-70 porta le aziende automobilistiche europee a guadagnare
progressivamente una fetta maggiore del mercato. Nell’estate del 1950 un giovane ingegnere
giapponese chiamato Eiji Toyoda visita l’impianto produttivo della Ford a Detroit. Ritornato in
patria inizia a studiare assieme al proprio supervisore di reparto Taiichi Ohno come applicare
20
il modello di produzione di massa nella fabbrica a Nagoya. A seguito della seconda guerra
mondiale la fabbrica Toyota decide di entrare nel mercato automobilistico, incontrando però
una serie di problemi: il mercato domestico richiede un'ampia gamma di prodotti, la forza
lavoro chiede sempre maggiori considerazioni e non può più essere vista come semplice parte
intercambiabile del sistema, a seguito del conflitto mondiale il mercato era prevalentemente
locale e lontano dallo scambio tecnologico con l’occidente ed i principali brand automobilistici
occidentali cercano da anni di monopolizzare il mercato giapponese, per ultimo il governo
giapponese ha ricevuto un embargo per gli investimenti esteri nel settore automotive. Ben presto
Toyota e gli altri marchi nipponici notano come il modello Fordista non è applicabile per le loro
fabbriche. Lo stesso Taiichi Ohno realizza che il modello occidentale di enormi e costosi
impianti a catena di montaggio non sono applicabili ai ridotti volumi di produzione nazionali.
Il budget a disposizione obbliga l’uso dello stesso macchinario per differenti semilavorati
richiedendo continui setup giornalieri. Ohno ben presto si rende conto che ottiene costi minori
nel produrre piccoli lotti invece che accorpare grandi volumi produttivi, a causa dei costi
contenuti di inventario e riscontro di difetti pressoché istantaneo. Per poter rendere efficiente
questo sistema è però necessario avere una forza lavoro altamente specializzata e pronta a
gestire attività differenti. I dipendenti in Toyota sono stati selezionati tra il personale ad alto
valore aggiunto. Gli ingegneri industriali organizzano il lavoro degli operatori e sono i diretti
responsabili di un continuo miglioramento della propria area, i macchinari vengono riparati
preventivamente, le aree di lavoro sono sempre pulite, il controllo qualità riporta i risultati
direttamente ai responsabili di area e in generale si ha una forte autonomia nei singoli
dipartimenti. Ohno dopo la visita agli stabilimenti Ford a Detroit negli anni 50 vede come siano
presenti numerosi sprechi in produzione, ma nessuno presenta il problema ai propri supervisori,
in quanto non è compito degli operai portare valore aggiunto alla propria mansione. Inoltre, si
nota come la comunicazione tra dipartimenti sia fondamentale. Il Toyota Production System
(TPS) viene affinato e negli anni 60 diventa uno standard per l’intera azienda. Le vendite si
espandono al di fuori dei confini nazionali e nel 1990 l’azienda offre tanti prodotti quanti
General Motors, sebbene Toyota sia grande la metà di GM. Negli anni 80 il modello TPS
sviluppato negli stabilimenti Toyota inizia a diffondersi in occidente, diventando riferimento
per numerose organizzazioni a livello globale. Bisogna però aspettare il 1988 per poter vedere
per la prima volta il termine Lean grazie a John Krafcik futuro CEO del progetto di auto a guida
autonoma Waymo di Google nel suo articolo "Triumph of the Lean Production System", basato
21
sulla sua tesi di laurea presso la MIT Sloan School of Management. Grazie alla successiva
pubblicazione del libro di James P. Womack intitolato “The machine that changed the world
The Story of Lean Production” nel 1990 il modello prende valore a livello globale. Ben presto
la metodologia Lean si diffonde in ogni attività manifatturiera diventando un riferimento per
l’intero settore.
Il primo principio del modello Lean è riassumibile nella seguente frase: “Basa le decisioni di
gestione su una filosofia a lungo termine, anche a scapito degli obiettivi economici a breve
termine
5
, il miglioramento aziendale deve fondarsi su una visione a lungo termine. Il secondo
principio è far emergere le attività di valore, in quanto buona parte dei processi sono 90%
spreco e 10% valore aggiunto”
6
. Il terzo principio è standardizzare i processi aziendali,
attraverso tre elementi: il takt time ovvero il tempo necessario per completare un lavoro al ritmo
della domanda del cliente, la sequenza delle attività da compiere e la quantità di stock a
disposizione per svolgere il lavoro standardizzato. È importante ricordare come sia necessario
bilanciare le rigide procedure da seguire e la libertà di essere innovativi e creativi. Ciò è
possibile definendo gli standard affinché siano delle linee guida, pur garantendo un certo grado
di flessibilità. È sempre necessario tener presente come tutte le persone siano responsabili a
migliorare gli standard proposti. Il quarto principio è garantire ordine e visual management. Per
poter garantire massima efficienza ogni elemento in produzione dev’essere allocato in una
posizione specifica preventivamente assegnata ad una funzione specifica e ogni ambiente di
lavoro dev’essere ordinato, secondo il modello delle 5S, ovvero mantieni solo il necessario
(Seiri), crea un posto per ogni cosa (Seiton), mantieni gli ambienti puliti (Seiso), crea regole
per mantenere questo sistema (Seiketsu) e infine mantieni questo processo attraverso un sistema
di miglioramento continuo (Shitsuke) (Henderson, Larco, & Martin, 1999). Inoltre, per poter
garantire maggiore comprensione dello stato di avanzamento è necessario introdurre strumenti
di controllo visuale in ogni punto della filiera produttiva. Il controllo visuale deve mostrare lo
scostamento tra gli attuali processi e lo standard proposto. Attraverso differenti strumenti
manuali e digitali di visual management è possibile monitorare l’intera filiera produttiva e
5
Jeffrey K. Liker, The Toyota Way. 14 management principles from the world's greatest manufacturer, p.85,
McGraw-Hill Education, 2003
6
Jeffrey K. Liker, The Toyota Way. 14 management principles from the world's greatest manufacturer, p.102,
McGraw-Hill Education, 2003
22
prendere decisioni concrete per l’organizzazione. Il quinto principio è utilizzare nuove
tecnologie solo se sono di supporto ai processi e alle persone. Ciò significa che le tecnologie
devono essere prototipate, testate e valutate in termini di valore aggiunto prima di poter essere
applicate all’organizzazione. Il sesto principio è il lavoro di squadra. Al contrario della
manifattura tradizionale dove sono i dirigenti ad essere responsabili della risoluzione dei
problemi, della qualità, del mantenimento dell’infrastruttura e della produttività, nel modello
Lean sono i diretti possessori dei processi aziendali ad essere il punto focale della risoluzione
dei problemi. Le persone che compiono le attività (a valore aggiunto) sono le più familiari con
gli attuali problemi che affliggono il lavoro e sono loro a dover essere interrogate per analizzare
quali problemi sono presenti attualmente. Il settimo principio Lean è andare e vedere di persona
per capire a fondo la situazione (Genchi Genbutsu). I soli indicatori di processo non bastano
per avere una visione complessiva dello stato delle cose, è fondamentale vedere di persona i
processi produttivi cercando di essere imparziali nell’osservazione e raccolta delle
informazioni. Taaichi Ohno consiglia l’uso dei 5 perché per arrivare alla causa principale dei
problemi. La traduzione letterale del termine è posizione (genchi) e materiali (genbutsu). Il
termine che ha preso maggiore vigore è però gemba, che significa posizione attuale, riferita alla
posizione in cui si sta creando valore aggiunto. Il primo passo per ogni processo di risoluzione
di problemi è andare a gemba. Ogni individuo, anche un leader deve accogliere questo
principio. L'ottavo principio è prendere decisioni lentamente e implementarle rapidamente
(nemawashi). Per rendere il miglioramento efficiente è necessario riconoscere tutti i problemi
e difficoltà nella fase di esplorazione e non di implementazione, ottenendo virtualmente nessun
problema nella fase finale implementativa. Il processo di nemawashi si basa sulla creazione di
una proposta, la verifica della validità attraverso input da differenti soggetti e l’ottenimento del
consenso da parte dell’organizzazione. Il nono principio Lean è diventare una learning
organization attraverso riflessione incessante (hansei) e miglioramento continuo (kaizen). Il
modello Lean si basa sul concetto di learn by doing, ovvero apprendere continuamente
dall’esperienza e dagli errori. L’organizzazione dev’essere pronta ad apprendere continuamente
per restare economicamente competitiva rispetto al mercato. È inoltre fondamentale l’attività
di retrospettiva (hansei) che si basa sulla presa di responsabilità, sull’auto-riflessione e
sull’apprendimento di gruppo. Infine, l’ultimo elemento fondamentale è Kaizen, ovvero
cambiare in meglio; il termine non si riferisce al semplice miglioramento continuo, ma a una
rottura dello status quo per ottenere un miglioramento.
23
Figura 3 Ciclo di sviluppo Lean
La prima fase del modello Lean è “identificare il valore”. In questa fase è necessario
riconoscere nel problema affrontato gli elementi attuali o potenziali che portano valore aggiunto
per l’organizzazione e svilupparli per ottenere maggiore soddisfazione da parte dell’utente. La
seconda fase è “mappare il flusso di valore” (value stream mapping). In questa fase è necessario
analizzare i processi aziendali attraverso indicatori e KPI sviluppando una mappa dello stato
attuale delle cose (current state map) e una mappa dello stato futuro proposto grazie al
miglioramento (future state map). La terza fase è “creare un flusso di lavoro continuo”. Lo
sviluppo di un prodotto o servizio spesso presenta diversi colli di bottiglia, è necessario
sviluppare un sistema che elimini le principali cause di stallo. Uno degli elementi sviluppati dal
modello per far fronte a ciò è rendere i processi poka yoke, ovvero a prova d’errore: se un
processo può essere svolto in un solo modo (quello corretto) si avrà minore incidenza di errori
e fermi non programmati. La quarta fase è identificata dalla “creazione di un sistema pull
(kanban). Lavorare in ottica pull significa seguire il ritmo imposto dalla domanda, se al
momento uno specifico prodotto o servizio non è necessario, allora al momento non dev’essere
24
sviluppato. La quinta e ultima fase della metodologia Lean è il “miglioramento continuo”. Ogni
processo, ogni attività e ogni metodologia di lavoro possono essere migliorati. Basandosi
sull’esperienza svolta durante le fasi precedenti è infatti necessario soffermarsi ad analizzare il
lavoro svolto e se a ricercare gli elementi da migliorare durante il ciclo di lavoro successivo.
25
2.4. Design Thinking e Design Sprint
Tra le metodologie di sviluppo di nuovi prodotti, il Design Thinking ed il suo successore il
Design Sprint sono tra i modelli più noti. Nascono nel mondo del Design ma ben presto si
diffondono in numerosi ambiti rendendoli tra gli strumenti di lavoro più utilizzati e riconosciuti
a livello globale.
Il primo importante contributo al pensiero di Design risale al 1969 quando l’economista,
psicologo, informatico e futuro premio Nobel per l’economia Herbert A. Simon definisce
"design" come elemento comprensivo di tutte le attività consapevoli per la creazione di artefatti,
differenziandolo così dalle scienze naturali, dalle scienze sociali e dalle scienze umane, ma non
dall'ingegneria (Simon, The Sciences of the Artificial, First Edition, 1968). L’elemento chiave
dei suoi studi è la comprensione che il design si occupa di creare, mentre altre scienze trattano
ciò che già esiste. Sebbene Simon non definì mai il termine design thinking, con il suo approccio
cognitivo al processo decisionale e la sua nota definizione di design come il corso dell’azione
volta a cambiare le situazioni esistenti in condizioni preferite
7
, esso è un punto di riferimento
per gli scritti accademici sul design e sul design thinking e spesso viene definito come il padre
fondatore della ricerca sul design (Johansson-Sköldberg, Woodilla, & Çetinkaya, 2013). Nel
1983 Donald Schön, Filosofo e docente di urbanistica al Massachusetts Institute of Technology
(MIT) in contrasto con Simon, ha costruito un'immagine del designer attraverso un'attenzione
basata sulla pratica, sulla relazione tra creazione e riflessione che consente di migliorare
costantemente la competenza e la ri-creazione (Schon, 1984). Questa riflessione non deve
soltanto provenire dalla pratica, ma dev’essere parte integrante della pratica stessa. Schön ha
preso in considerazione anche la pratica manageriale e ha notato che i manager sono ben
consapevoli delle importanti aree della pratica che non rientrano nella razionalità tecnica.
Mentre i manager affrontano le decisioni in condizioni di incertezza attraverso l'intuizione,
costruiscono una capacità essenzialmente non analizzabile di risolvere i problemi attraverso
una pratica lunga e varia, piuttosto che attraverso lo studio della teoria o delle tecniche. Secondo
Schön, però, i manager riflettono durante l’azione, ma raramente riflettono a seguito della
7
Herbert A. Simon, The Sciences of the Artificial, Terza edizione, p.111, The MIT Press, 1970
26
stessa. Nel 1991 David Kelley, Bill Moggridge e Mike Nuttall fondano a Palo Alto in California
la compagnia di design e consulenza IDEO (IDEO, 2023). Attraverso studi interni di design
riescono a sviluppare una propria terminologia, fasi e strumenti di design costruiti attorno alle
necessità del cliente. L’obbiettivo del gruppo è quello di incubare e promuovere una
metodologia operativa universale per l’attività di design. L’anno successivo il docente di
design, management e sistemi informativi alla Carnegie Mellon University Richard Buchanan
pubblica l’articolo “Wicked Problems in Design Thinking” nel quale ripercorre le principali
tappe storiche che hanno portato alla nascita del DT come disciplina che unisce arte e scienza,
teoria e pratica, generale e particolare in una materia non applicabile a priori, ma in divenire
(Buchanan, 1992). È dagli anni 2000 che la metodologia DT si diffonde a livello globale, anche
grazie alla nascita da parte di David Kelley nel 2004 della “Stanford d.school” come centro di
ricerca e promozione del pensiero DT. Nel 2016 viene svolto un passo in avanti nella
definizione di un modello di lavoro per il mondo del design, grazie principalmente agli studi
svolti da Jake Knapp, ricercatore a Google Ventures. Knapp sviluppa una metodologia snella
nello sviluppo di nuove idee combinando il pensiero DT alla metodologia Agile, formando il
modello da lui soprannominato Design Sprint. Grazie alla pubblicazione del libro "Sprint: How
to Solve Big Problems and Test New Ideas in Just Five Days" la metodologia diventa uno
standard globale nel mondo del design e in diversi settori lavorativi.
Il Design Thinking è un approccio human-centered alla risoluzione di problemi di varia
natura, è un sistema iterativo diviso in fasi che ha l’obbiettivo di accompagnare lo sviluppo di
un nuovo prodotto, servizio, processo o strategia dalla sua ideazione sino alla sua analisi a
posteriori, comprendendo, criticando e ridefinendo i problemi affinché si raggiunga il reale
obbiettivo desiderato, studiandone la sua fattibilità tecnologica ed economica. Secondo Tim
Brown, executive chair di IDEO il Design Thinking è un approccio all’innovazione che attinge
agli strumenti del designer per integrare le esigenze delle persone, le potenzialità della
tecnologia e i requisiti per il successo aziendale
8
. Il modello utilizza tecniche scientifico-
razionali al fine di ottenere strumenti riutilizzabili e misurabili in termini di performance.
Utilizzare il DT significa comprendere le persone, porsi le domande giuste, riformulare i
problemi proposti e sperimentare continuamente migliorando il proprio approccio iterazione
dopo iterazione (Fogli, 2023). Secondo Tim Brown l’innovazione attraverso il Design Thinking
8
Tim Brown, https://designthinking.ideo.com/
27
risiede nell’unione della desiderabilità delle persone, ovvero il reale bisogno dei clienti, della
profittabilità, attraverso un modello di business sostenibile e della fattibilità tecnica grazie ad
attuali o future capacità produttive.
Figura 4 Diagramma Desiderabilità, Profittabilità e Fattibilità
Il Design Thinking è uno strumento nato per il mondo del design, ma applicabile a differenti
contesti. Si basa sul concetto di riadattare il proprio prodotto sui reali bisogni delle presone e
non viceversa. Per questo spesso esso è definito non solo come metodologia di sviluppo, ma
come mindset vero e proprio, espandibile in diversi ambiti di lavoro (IDEO, 2015).
Sono stati individuati alcuni degli strumenti utilizzati nel mondo del DT. Il modello
prevede che ogni gruppo di design riadatti e utilizzi solo parte degli strumenti proposti al fine
di raggiungere il proprio obbiettivo (Lewrick, Link, & Leifer, 2020).
Il processo si suddivide in cinque differenti fasi: “empatizzare”, “definire”, “ideare”,
“prototipare” e “testare”. L’approccio proposto è di tipo ciclico, e se in fase di sviluppo si
riscontrano delle difficoltà, il modello prevede di tornare alle precedenti fasi fino a risolvere il
problema all’origine.
28
Figura 5 Ciclo di sviluppo dei modelli DT e DS
La prima fase del modello è “empatizzare” (DT). Nel DT l’inizio non coincide con la
ricerca di una soluzione, ma con la ricerca e analisi di un problema. Comprendere le reali
necessità delle persone significa infatti essere in possesso delle giuste domande definite come
problem statements. È quindi necessario intervistare persone e mappare le attività quotidiane al
fine di comprendere quali siano le reali necessità delle persone. Le interviste sono interventi
programmati verso singoli soggetti appartenenti all’area in analisi, prevedono la presenza di
uno o più intervistatori che solitamente registrano le risposte per una durata complessiva di 15-
30’ per sessione. Possono essere interviste di tipo strutturato, semi-strutturato o non strutturato
e si basano su tematiche preventivamente stabilite. La prima metodologia si basa sulle domande
standard:
§ Chi?
§ Cosa?
§ Quando?
§ Dove?
29
§ Come?
§ Perché?
Sebbene siano domande universali, se riadattate al contesto da analizzare sono strumenti potenti
per avere una visione completa del problema. La seconda tecnica è data dai 5 perché,
continuando iterativamente a chiedersi il perché di risposte date si riesce ad individuare la causa
principale del problema.
§ Perché avviene l’evento A? Per il motivo B
§ Perché avviene l’evento B? Per il motivo C
§ Perché avviene l’evento C? Per il motivo D
§ Perché avviene l’evento D? Per il motivo E
§ Perché avviene l’evento E? Per il motivo F
Infine, è possibile utilizzare la tecnica delle interviste funnel (Rosala & Moran, 2022), ovvero
raggiungere progressivamente alla domanda specifica, partendo da domane generali e non
guidate:
§ Domanda vaga e aperta
§ Domanda seguita e aperta
§
§ Domanda seguita e chiusa
Il focus group è una conversazione tra 6-12 partecipanti focalizzata su una tematica specifica,
è presente un moderatore che guida la conversazione per una durata complessiva di 30-60’.
Altre varianti prevendono focus group a due o più moderatori, a due vie, con moderatore
partecipante, in via telematica, mini focus group (4-5 partecipanti) o con moderatori duellanti.
Il moderatore ha il compito di presentare l’argomento di discussione, di riportare la
conversazione sull’argomento in questione, di lasciare spazio alla conversazione a tutti i
soggetti e di raccogliere e analizzare i risultati ottenuti. A seguito della definizione del
problema, è necessario svolgere un’osservazione sul campo attraverso vari strumenti, tra cui lo
user profile, la struttura AEIOU oppure il peers observing peers. In questa fase è necessario
comprendere gli utenti ed i loro reali bisogni documentando le informazioni raccolte sul camp
(Lewrick, Link, & Leifer, 2020). Lo user profile (chiamato anche persona) è uno strumento di
durata media di 15-20’ in grado di emulare un utente, attraverso una descrizione delle sue
caratteristiche tecniche e personali, l’analisi delle attività che compie, delle difficoltà da lui
riscontrate e dalle attività da lui più apprezzate. La metodologia AEIOU invece prevede di
30
analizzare le attività (activities) degli utenti, l’ambiente (environment) in cui vivono, le
interazioni (interactions) che hanno con altre persone, gli oggetti (objects) o strumenti fisici o
non utilizzati per svolgere una specifica attività e gli utenti (users) che tipicamente svolgono
tali attività. Il peers observing peers è un metodo di raccolta dati attraverso l’osservazione
diretta degli utenti. La durata tipica di tale attività di 60-240’ per poter avere una maggiore
comprensione del lavoro svolto dagli utenti per intero. Alla fine dell’attività è necessario
trascrivere le informazioni raccolte come un flusso libero di pensieri da rielaborare in seguito.
Un’ulteriore modalità di raccolta di informazioni è data dai sondaggi, di durata di 3-5’. È
possibile creare sondaggi cartacei o attraverso strumenti in rete per raccogliere informazioni su
un numero maggiore di utenti. I sondaggi devono essere chiari, coincisi e con scale similari per
facilitare l’interazione con l’utente. Nel mondo del design è presente uno standard lo user
experience questionnaire, presente anche in forma breve che presenta solo otto domande
specifiche. L’analisi competitiva è un’attività che si basa sull’osservazione di situazioni
analoghe risolte da competitor individuando le potenzialità di miglioramento interne. È
possibili sviluppare un report specifico per ogni concorrente analizzato e successivamente è
possibile svolgere un’analisi SWOT complessiva tra la situazione interna ed il mondo esterno.
La seconda fase del modello è “definire”. A seguito della raccolta dati provenienti dagli
utenti è necessario riassumerli, raggrupparli, discuterli e valutarli per poter individuare quali
siano i reali bisogni delle persone (Lewrick, Link, & Leifer, 2020). In questa fase si riduce il
campo di analisi entrando maggiormente nel dettaglio del lavoro. È importante mantenere
sempre il punto di vista degli utenti, utilizzando strumenti quali domande how might we,
storitelling thinking oppure il critical items diagram. È possibile utilizzare la tecnica di
Domandarsi, con durata media di 5-15’. Per entrare nell’ottica dei propri clienti è utile porsi
delle domande cercando di impersonarsi come fruitori del prodotto in fase di sviluppo. Lo
strumento how might we prevede di formulare domande sul modo in cui si potrebbero risolvere
nelle fasi future i problemi identificati nelle fasi precedenti. Attraverso questo strumento
possono emergere gli obbiettivi da raggiungere nella fase successiva di ideazione. Lo
storitelling è una rappresentazione visuale degli eventi che compiono le persone. Per poter
creare una rappresentazione veritiera è necessario preventivamente svolgere ricerche, parlare
con le persone, ed entrare in empatia per poter formulare storie profonde. Tipicamente viene
dedicato un tempo di 15-30’, sono presenti numerosi template, differenti dal contesto in
osservazione. Il vision cone è uno strumento che mostra lo stato passato, presente e futuro di un
31
contesto specifico. Lo strumento può essere utilizzato poter definire una mappa temporale degli
obbiettivi da raggiungere in fase di sviluppo. L’ultimo strumento individuato per questa fase è
il critical items diagram, un grafico che si basa sull’individuazione delle criticità
precedentemente riscontrate, classificando anche le esperienze, le funzioni tipiche di un’attività
specifica e le aspettative future.
La terza attività del modello è “ideare”. La fase di ideazione si basa sulla ricerca di idee
tramite attività di brainstorming al fine di ottenere il maggior numero di idee prima di essere
ordinate, combinate o raggruppate (Lewrick, Link, & Leifer, 2020). La decisione delle idee
migliori è data da differenti strumenti quali matrici impatto-sforzo o dot voting. Oltre all’uso di
strumenti specifici, in questa fase avviene un primo studio di fattibilità delle idee proposte con
relative analisi qualitative di costo, fattibilità tecnica e tempi richiesti per lo sviluppo. L’attività
di brainstorming può essere svolta con strumenti cartacei quali blocchetti memo adesivi e fogli
di carta oppure con strumenti digitali. L'obbiettivo di questa attività è di raccogliere il maggior
numero di idee e di rappresentarle in forma astratta attraverso descrizioni semplici e coincise.
In questa fase si predilige la quantità alla qualità. Le idee possono essere descritte in forma
testuale, visuale o fisica e l’obbiettivo finale è risolvere un quesito posto a inizio attività. È
possibile, inoltre, utilizzare la tecnica 6-3-5 che richiede a 6 partecipanti di scrivere 3 idee in
round da 5 minuti, al termine del round il foglio viene passato alla persona accanto e dopo 30’
verranno generate 108 idee differenti. L’approccio NABC invece si sofferma su quattro
elementi fondamentali: bisogni (need) degli utenti, approccio proposto (approach), benefici
raggiunti (benefit), relazione con i competitor (competition). Rispondere a questi quattro quesiti
porta a comprendere il nucleo di un’idea comparando fin da subito la propria idea con il mondo
esterno. L’attività di analisi delle idee ha durata media di 3-5’. Dalla precedente attività di
brainstorming è necessario analizzare tutte le idee raccolte. Inizialmente è possibile selezionare
parte delle idee tramite la tecnica del dot voting; successivamente le idee selezionate possono
essere inserite in una matrice impatto sforzo per individuare le idee con maggiore probabilità
di successo.
La quarta fase del DT è definita “prototipare”. Sviluppare un prototipo significa creare
uno strumento semplice ed economico sul quale è possibile far testare le sue funzionalità agli
utenti affinché vengano riconosciute criticità e possibili miglioramenti prima dello sviluppo del
prodotto finale. Lo standard ISO 13407 definisce prototipo come “una rappresentazione di un
prodotto o di un sistema, che anche se in qualche modo limitata, può essere utilizzata a scopo
32
di valutazione
9
. Avere un prototipo su cui è stato possibile far testare e approvato da parte
degli utenti significa avere uno strumento realmente utile e tempi di realizzazione della versione
definitiva nettamente ridotti (Lewrick, Link, & Leifer, 2020). L’attività successiva nel DT è la
sequenza del processo con durata media di 15-30’. Per poter sviluppare uno strumento efficace
è necessario mappare l’intero flusso che mette in relazione l’utente con il risultato finale,
individuando sia le posizioni in front-end che le posizioni in back-end. Grazie al Design
Thinking si ha a disposizione il service blueprint, un diagramma che analizza sequenzialmente
ogni fase che intercorre tra utente e risultato. Sono inizialmente individuati tutti gli attori
coinvolti nel processo sull’asse verticale, mentre gli step richiesti vengono evidenziati sull’asse
orizzontale. La matrice così costruita rappresenta il flusso di azioni che ogni attore deve
compiere per raggiungere il risultato, evidenziando le azioni che l’utente può vedere (front-end)
da ciò che non può vedere (Back-end). I ruoli possono essere svolti da persone o altre entità
(aziende, software...). Lo sviluppo del prototipo è un’attività con una durata variabile, il tempo
di sviluppo di un prototipo dipende direttamente dalla complessità del prototipo stesso. Il
Minimum Viable Product (MVP) è la traduzione dei bisogni degli utenti in uno strumento
semplice, funzionale ma simile al prodotto finito affinché l’utente possa testarlo, e in seguito
esprimere una propria opinione. È lo strumento cardine della metodologia Design Thinking
perché grazie ad esso è possibile svolgere numerose iterazioni in tempi ridotti a costi
relativamente contenuti. Il prototipo può riprodurre parte o interamente il prodotto finito
testando gli elementi più critici del progetto. Sono quasi sempre richieste numerose iterazioni
prima di raggiungere il risultato desiderato.
La quinta fase del DT è definita come “testare”. La fase di test è strettamente legata alla
fase precedente di prototipazione. Un campione di utenti potenziali ha il compito di testare in
maniera più o meno guidata il prototipo al fine di individuare dei possibili problemi. Questa
fase è fondamentale non solo per riconoscere eventuali difetti di progettazione, ma anche
problemi più profondi, secondo un punto di vista differente dagli sviluppatori di quel prodotto
(gli utenti per l’appunto). Questa fase si ricollega alla fase di comprensione dove avveniva una
forte collaborazione con gli utenti interessati. Sono presenti numerose tecniche di test utili ad
analizzare il prototipo sotto punti di vista differenti. (Davenport & Short, 1990).
9
ISO 13407:1999, Human-centred design processes for interactive systems, 2. Terms And Definitions, 2.2.
Prototype, 1999
33
L’attività di test libero avviene distribuendo il prototipo con un numero limitato di informazioni
per una durata di 15-30’. Gli utenti non hanno indicazioni d’uso dello strumento e non hanno
obbiettivi da raggiungere, la raccolta dei dati avviene tramite l’osservazione diretta dei soggetti
e dalla compilazione di schede precompilate da parte degli utenti. La feedback capture grid è
una griglia dove gli utenti possono esprimere la loro opinione riguardo agli elementi che hanno
trovato vincenti, bisogni da dover cambiare, nuove idee da provare e dubbi che si hanno ancora
riguardo al prototipo presentato. Grazie ad uno strumento semplice e coinciso come questo è
possibile individuare direttamente i punti deboli ed i punti di forza del progetto in fase di
sviluppo. È possibile analizzare due o più prototipi contemporaneamente grazie all’A/B test,
individuando il prototipo che ha una percentuale di risultati desiderati maggiore. Vengono
fornite allo stesso utente differenti versioni e si analizzano i tempi di risposta individuando il
prototipo più performante. Un intervento di test strutturato ha bisogno di unna profonda
progettazione preventiva prima di far testare il prototipo all’utente. Vengono inizialmente
individuati almeno 5 compiti specifici e ben definiti da far svolgere all’utente. I compiti devono
essere rappresentativi della maggior parte delle funzionalità del prototipo. Le attività sono
solitamente strutturate per avere un livello di complessità progressivo per non spaventare gli
utenti. Talvolta è necessario svolgere un test pilota per valutare la comprensibilità degli
obbiettivi selezionati. Durante la fase di test, con durata media di 15-30’, vengono fornite solo
informazioni essenziali, senza entrare nel dettaglio sulle funzionalità del prototipo. Ogni
compito assegnato viene osservato e cronometrato da un soggetto esterno che osserva e registra
ogni operazione svolta dall’utente. L’osservatore non deve interferire nel test di usabilità
dell’utente.
L’ultima fase del modello proviene dal Design Sprint ed è uno degli elementi innovativi
rispetto ad il suo predecessore: la “retrospettiva”. La fine di un DS è strettamente correlata
all’inizio dello sprint successivo. Dalle proprie azioni è possibile imparare e crescere iterazione
dopo iterazione. Per chiesto è necessario analizzare nel dettaglio il lavoro svolto in tutto il
processo per analizzarne i punti di forza ed i punti di miglioramento.
Il Design Thinking sposta l’attenzione dal progetto all’uomo rendendolo l’elemento di
valutazione in ogni fase di sviluppo. Il modello utilizza metodologie operative ben definite per
strutturare il lavoro in fasi specifiche. Grazie al Design Thinking si ha a disposizione strumenti
precisi per relazionarsi con gli utenti, intervistarli, studiare il loro punti di vista per ottenere un
risultato effettivamente vincente per il progetto. Il design thinking insegna anche quanto gli
34
sprint non siano eventi isolati ma strettamente collegati l’uno dall’altro e che è l’esperienza
stessa a far migliorare i team di lavoro, progetto dopo progetto. Sebbene il DT sia nato per
accompagnare i designer nel loro lavoro, questo metodo può essere applicato a diversi ambiti
di lavoro, dove l’uomo è l'elemento centrale.
35
2.5. Agile e DevOps
Lo sviluppo software dalle sue origini ad oggi ha avuto una crescita esponenziale tuttora in
corso. Per rispondere a questo rapido cambiamento sono nate numerose metodologie che si
sono affinate nel tempo. Ad oggi i principali metodi di lavoro in questo campo sono la
metodologia Agile ed il suo successore DevOps.
Il campo dello sviluppo software emerge negli anni ‘50 con la nascita dei sistemi
operativi e diventa sempre più popolare negli anni ‘60 e ‘70. Il primo modello e il più popolare
prima dell’avvento del modello Agile, è il modello a Cascata (Waterfall), che si basa su fasi
sequenziali di sviluppo in cui ogni fase viene completata prima dell’inizio della successiva, in
un sistema fortemente strutturato. Questa metodologia è stata presentata per la prima volta nel
1956 da Herbert Benington al simposio di metodologie di programmazione avanzata per
computer digitali (Benington, 1983). Nonostante la sua forte popolarità, il modello è stato
fortemente criticato negli anni per la sua forte rigidità e per la sua difficoltà nell’adattarsi ai
cambiamenti inevitabili durante il percorso di sviluppo. Dalla fine degli anni ’80 anche grazie
agli studi sull’interaction design (Whiteside, Bennett, & Holtzblatt, 1988) si iniziano a ricercare
nuovi modelli, più iterativi, finché nel 2002 M.B. Rosson e J.M Carroll (Rosson & Carroll,
2002) uniscono studi di usabilità a processi di sviluppo iterativo, sotto forma di uno strumento
che evolve e si raffina durante il processo di sviluppo. Si inizia di parlare di nuove metodologie
come Scrum, Extreme Programming e Crystal Family. Sebbene già nel 1968 ricercatori del
centro di ricerca TJ Watson della IBM pubblicano il primo documento di ricerca che descrive
un processo che ha le maggiori somiglianze con l'attuale processo di sviluppo Agile o iterativo
(Zurcher & Randell, 1968), la stessa IBM non inizia ad utilizzarla sino all’inizio del secolo
successivo. È solo dal 2001 grazie alla pubblicazione del manifesto Agile (Agile Alliance
Group, 2001) creato da un incontro di 17 professionisti interessati a riunirsi a Snowbird, nello
Utah, per discutere di metodologie di sviluppo leggere e iterative. La maggior parte dei
partecipanti ha presentato i vari approcci che sviluppati e utilizzati quotidianamente. Il gruppo
forma l'iniziale Agile Alliance group, la cui missione è promuovere il passaggio ad approcci di
sviluppo più leggeri e lontani dal pesante processo di sviluppo Waterfall. Non sono interessati
a fondere i loro approcci più leggeri, ma lavorano per trovare un termine generale che descriva
accuratamente tutti gli approcci leggeri disponibili. Dopo un lungo dibattito, il termine "Agile"
36
ottiene il consenso del gruppo e si procede alla creazione del "Manifesto per lo sviluppo agile
del software". Dopo aver sviluppato l'elenco di valori iniziali per lo sviluppo software Agile,
gli autori decidono di aggiungere un elenco di principi che aiutino i team a comprendere le
priorità delle pratiche Agile. A seguito di questo incontro viene costituita l'Agile Alliance,
un’organizzazione no profit globale e i promotori di metodologie alternative leggere al
Waterfall hanno così una piattaforma comune per discutere le loro idee (Runyan & Ashmore,
2014). Dalla pubblicazione del manifesto Agile, la comunità di sviluppatori inizia a adottare il
modello fino a rendercelo uno standard per il settore. Nascono però le prime perplessità sul
modello, in particolare per la ridotta collaborazione tra sviluppatori e amministratori di sistema.
Nel 2008 alla conferenza Agile di Toronto Andrew Shafer organizza una presentazione
intitolata “Agile Infrastructure” per discutere del problema, ma nessuno a parte Patrik Debois
sembra essere interessato e Shafer decide di non presentarsi. Nel giugno del 2009 John Allspaw
e Paul Hammond tengono la conferenza che porrà le basi per una nuova metodologia operativa.
Nell’ottobre dello stesso anno Patrick Debois riprendendo il lavoro svolto da Allspaw e
Hammond, tiene una conferenza che intitola DevOpsDays, come abbreviazione dei termini
Developement e Operations. Sui social compare il primo hashtag abbreviato #DevOps e da
allora il movimento è conosciuto come DevOps. Lo stesso Debois afferma nel 2012 che il nome
del movimento non è intenzionale, ma è sicuramente più coinciso della possibile definizione di
Agile System Administration. Negli anni seguenti il gruppo Gartner ripropone il modello
rendendolo famoso in tutto il mondo. Nel 2014 il programma di ricerca DevOps Research and
Assessment (DORA) pubblica il suo primo state of DevOps report annuale, diventato negli anni
riferimento per il movimento. Nel 2018 Google acquisisce DORA inserendola nel suo
programma di ricerca per il cloud, rendendo la metodologia DevOps uno standard per lo
sviluppo software nel cloud. Il manifesto Agile pubblicato nel 2001 dall’Agile Alliance Group
afferma quanto segue: Siamo arrivati a considerare importanti: gli individui e le
interazioni più che i processi e gli strumenti il software funzionante più che la documentazione
esaustiva la collaborazione col cliente più che la negoziazione dei contratti rispondere al
cambiamento più che seguire un piano
10
. Il modello pone particolare enfasi sulla struttura dei
gruppi di lavoro, promuovendo una conversazione a voce, in quanto strumento più efficace ed
efficiente, favorendo team che si auto-organizzano, che si auto-analizzano e di conseguenza che
10
Agile Alliance Group, https://agilemanifesto.org/iso/it/manifesto.html, 2001
37
si auto-migliorano. Il manifesto è accompagnato da 12 principi (Agile Alliance Group, 2001)
che descrivono maggiormente la modalità operativa del modello, ponendo particolare enfasi
sulla soddisfazione del cliente attraverso un rilascio continuo e in tempi brevi di un software
funzionante, riadattato a seconda dei cambiamenti riscontrati in fase di sviluppo (Agile
Alliance Group, 2001). In particolare, si afferma quanto segue. “Il manifesto è stato
accompagnato da 12 principi che affermano: La nostra massima priorità è soddisfare il cliente
rilasciando software di valore, fin da subito e in maniera continua. Accogliamo i cambiamenti
nei requisiti, anche a stadi avanzati dello sviluppo. I processi agili sfruttano il cambiamento a
favore del vantaggio competitivo del cliente. Consegniamo frequentemente software
funzionante, con cadenza variabile da un paio di settimane a un paio di mesi, preferendo i
periodi brevi. Committenti e sviluppatori devono lavorare insieme quotidianamente per tutta la
durata del progetto. Fondiamo i progetti su individui motivati. Diamo loro l'ambiente e il
supporto di cui hanno bisogno e confidiamo nella loro capacità di portare il lavoro a termine.
Una conversazione faccia a faccia è il modo più efficiente e più efficace per comunicare con il
team ed all'interno del team. Il software funzionante è il principale metro di misura di progresso.
I processi agili promuovono uno sviluppo sostenibile. Gli sponsor, gli sviluppatori e gli utenti
dovrebbero essere in grado di mantenere indefinitamente un ritmo costante. La continua
attenzione all'eccellenza tecnica e alla buona progettazione esaltano l'agilità. La semplicità -
l'arte di massimizzare la quantità di lavoro non svolto - è essenziale. Le architetture, i requisiti
e la progettazione migliori emergono da team che si auto-organizzano. A intervalli regolari il
team riflette su come diventare più efficace, dopodiché regola e adatta il proprio comportamento
di conseguenza.”
11
. La metodologia Agile si contrappone alla metodologia a cascata per la sua
capacità ciclica nell’adattarsi ai cambiamenti in corso durante la fase di sviluppo. Il modello
nasce come combinazione di differenti modalità di lavoro nello sviluppo software: eXtreme
Programming (XP), Scrum, Feature-Driven Development, Dynamic Systems Development
Method (DSDM), Lean Software Development, Kanban Method e Crystal Family. Si
contrappone alla metodologia a cascata per la sua capacità ciclica nell’adattarsi ai cambiamenti
in corso durante la fase di sviluppo.
11
Agile Alliance Group, https://agilemanifesto.org/iso/it/principles.html, 2001
38
Figura 6 Modelli di ispirazione per la metodologia Agile
La metodologia Agile è tipicamente utilizzata in tutti i campi dell’ingegneria del
software, tra cui project management, la progettazione e l'architettura del software e il
miglioramento dei processi (Stellman & Greene, 2014). Il metodo Agile è una mentalità
(Stellman & Greene, 2014) operativa, che migliora la collaborazione tra i membri di un team
di lavoro. Il modello si suddivide in sette differenti fasi, sei delle quali si svolgono ciclicamente
39
in differenti round.
Figura 7 Ciclo di sviluppo Agile
La prima fase del modello è “pianificare”. In questa fase si crea la visione del progetto
proposto, si crea una roadmap del prodotto che descrive il ritmo da seguire per le fasi di sviluppo
e un piano di release che definisce il tempo di rilascio delle singole funzionalità. Lo scrum
master forma un team di lavoro e definisce i ruoli. È poi necessario costruire un product
backlog, ovvero una lista delle funzionalità del prodotto o servizio da sviluppare secondo un
ordine di priorità. In seguito, è necessario pianificare il singolo sprint creando una roadmap
delle attività da compiere con le relative tempistiche e creando uno sprint backlog delle attività
da compiere in base alle loro priorità.
La seconda fase del modello Agile è la “progettazione”. In questa fase il team Agile
progetta gli elementi da sviluppare per costruire il risultato dello sprint in corso, descrivendo
dettagliatamente le singole funzionalità che si vogliono ottenere e le specifiche necessarie a
sviluppare tali soluzioni.
40
La terza fase è lo “sviluppo del prodotto”. Ogni membro del gruppo di lavoro in base
alla mansione assegnatagli svolge la propria attività fino al completamento della feature
complessiva.
La quarta fase è il test”. Per poter validare il lavoro svolto è fondamentale testare la
feature appena creata attraverso prove, raccolta dati e analisi dei risultati ottenuti. Se la
funzionalità ha ottenuto risultati desiderabili da questa fase, allora è possibile proseguire alla
successiva.
La quinta fase è la “distribuzione”. A seguito della fase di test è possibile distribuire la
singola funzionalità al cliente mostrando il lavoro svolto e ricevendo un feedback per
l’implementazione delle funzionalità successive.
La sesta fase del modello è il “riesame”. Il singolo sprint è terminato e la singola
funzionalità è stata implementata. Da questo momento è necessario analizzare il lavoro svolto,
individuando gli strumenti che sono risultati utili nella creazione di una nuova idea e
individuando gli elementi migliorabili nello sprint successivo. A questo punto il ciclo di
sviluppo ricomincia dalla prima fase, fino ad ottenere il prodotto nella sua interezza.
Al completamento del progetto si aggiunge una settima fase: il “lancio”. In questo
momento sono state implementate e testate le singole funzionalità ed il progetto per intero. È
quindi possibile rilasciare il prodotto ai clienti completando lo sviluppo del progetto.
La metodologia DevOps si pone l’obbiettivo di superare alcuni dei limiti del modello
Agile, ispirandosi anche alla metodologia Lean, nella creazione di un nuovo approccio allo
sviluppo di una soluzione digitale in azienda. In una tradizionale struttura aziendale la divisione
IT è responsabile sia dell’attività ordinaria di gestione delle tecnologie, che dello sviluppo di
nuove funzionalità. Lo sviluppo di nuove tecnologie richiede una risposta breve al cambiamento
del mercato e dei concorrenti tramite l’implementazione di soluzioni innovative nel minor
tempo possibile. Al contrario le attività di gestione IT richiede di mantenere gli attuali servizi
stabili, affidabili e sicuri, rendendo allo stesso tempo difficile effettuare cambiamenti nel breve
periodo (Kim, Humble, Debois, & Willis, 2016). In particolare, ciò che solitamente avviene è
una “spirale verso il basso
12
composta da tre atti. Nel primo atto il reparto IT effettua l’attività
ordinaria di mantenere attive l’infrastruttura e le applicazioni aziendali. Nel secondo un product
12
Kim, Gene; Humble, Jez; Debois, Patrick; Willis, John, The DevOps Handbook, pp.23-24 IT Revolution Press,
2016
41
manager o un business executive richiede una nuova funzionalità per l’organizzazione,
spostando al team IT l’attività di sviluppo del progetto con massima priorità. Il progetto viene
avviato ma il tempo destinato a tale mansione non permette di svolgere un lavoro esaustivo e
spesso manca la documentazione, una standardizzazione dell’intero processo e un’analisi
profonda della richiesta fatta. Ciò si traduce in un techincal debt, un accantonamento
“provvisorio” di alcune problematiche relative al progetto, che provocano ulteriori errori e
rallentamenti nell’organizzazione. L’ultimo atto avviene a processo avviato, quando si
riscontrano malfunzionamenti o fermi delle tecnologie sviluppate. L’assenza di
documentazione a supporto, la necessità di gestire altre attività e la coda di lavori di
miglioramento richiesti rendono l’intero processo IT difficile da gestire. Un progetto che
sarebbe dovuto essere pronto in breve tempo, impiega settimane o mesi per poter essere
completato. A peggiorare la situazione, i feedback dalle persone diminuiscono sempre più a
causa della difficolta nel rispondere tempestivamente. Per risolvere questa situazione di stallo
è possibile utilizzare i seguenti approcci: piccoli gruppi di lavoro indipendenti possono
sviluppare, testare e rilasciare un risultato in maniera più snella. È fondamentale creare fast
feedback loops ad ogni fase del processo, ovvero continue interazioni con le persone per poter
avere riscontri immediati sulle singole funzionalità da migliorare. Infine, devono essere
standardizzate delle fasi di test, facili e veloci da applicare, per validare velocemente il lavoro
svolto. I progetti si basano sullo sviluppo di singole funzionalità, le più semplici possibile, per
poter arrivare al risultato finale nel minor tempo possibile. Attraverso questo processo si
instaura un continuo apprendimento organizzativo dell’approccio lavorativo utilizzato. Il
modello DevOps si pone tre percorsi per poter raggiungere questi obbiettivi. Il primo percorso
è un flusso da sinistra verso destra continuo dallo sviluppo alla gestione sino al cliente,
riducendo la complessità del progetto e ottimizzando costantemente i risultati ottenuti. Il
processo si basa sul susseguirsi di fasi di sviluppo, integrazione, test e rilascio in maniera
iterativa. Il secondo percorso si basa su un veloce e costante flusso di feedback da destra verso
sinistra in tutte le fasi del flusso di valore. Il processo secondo tale approccio non può continuare
finché tutti i riscontri dalle persone non saranno positivi. Il terzo e ultimo percorso permette la
creazione di una cultura aziendale dinamica, disciplinata, affidabile e scientifica per la
sperimentazione e la scelta di decisioni ad alto rischio, facilitando un apprendimento continuo
dell’intera organizzazione attraverso prove ed errori. Il punto di partenza di ogni progetto di
42
miglioramento è scegliere il potenziale flusso di valore, spesso applicabile in un contesto
brownfield, ovvero dove è già presente un’attività da migliorare/sostituire.
Il primo percorso del modello DevOps prevede 8 fasi di sviluppo da seguire
ciclicamente.
Figura 8 Ciclo di sviluppo DevOps
La prima fase è “pianificare”; questa fase è analoga alla metodologia Agile. La seconda
fase è “programmare il codice”, questa fase è comparabile alla fase di sviluppo della
metodologia Agile. La terza fase è “costruire”. In questa fase il codice appena creato relativo
alla singola funzionalità viene introdotto nel macro-progetto in corso. La quarta fase è il “test
continuo”. Il lavoro finora completato viene testato interamente raccogliendo le informazioni
utili per poter validare o meno il risultato complessivo raggiunto. Questa fase viene svolta su
un prodotto nel tempo sempre più complesso validando il codice prodotto negli sprint
precedenti in relazione con la release dell’ultimo ciclo di sviluppo. La quinta fase è il “rilascio”.
Per poter svolgere un’analisi del progetto in corso con un numero maggiore di utenti è
43
necessario rilasciarlo tra un numero di utenti selezionati. In questa fase vengono raccolte
numerose informazioni, difficili da riscontrare nella fase precedente di test. La sesta fase è la
“distribuzione”. È in questa fase che il rilascio è globale verso tutti gli utenti, il progetto
dovrebbe essere idealmente privo di errori. La settima fase del modello DevOps è “operare”.
Qui è necessario costruire e gestire l’infrastruttura che sostiene l’accesso del codice appena
rilasciato da parte degli utenti. L’ottava e ultima fase è il monitoraggio. In questa fase si
monitora continuamente il codice individuando bug appena scoperti, analizzando nuove
possibili funzionalità proposte dagli utenti e trovando modalità di miglioramento del progetto
appena rilasciato.
Sebbene i modelli Agile e DevOps nascano come strumenti a supporto dello sviluppo
software, essi sono d’ispirazione per diverse metodologie di sviluppo di nuove idee negli anni,
grazie anche ad un approccio ciclico e innovativo dell’obbiettivo in continuo divenire. Nella
loro forma originale le metodologie sopra descritte sono altamente verticalizzate nello sviluppo
software, ma possono essere facilmente reinterpretate e riadattate per il proprio lavoro. In
particolare, il modello DevOps si pone l’obbiettivo di superare la metodologia Agile correlando
il lavoro di sviluppo di un progetto (developer) con la sua manutenzione ordinaria (operation),
considerando l’organizzazione nella sua interezza.
44
2.6. Lean Startup
Lean startup è un nuovo approccio per lo sviluppo di nuovi prodotti o attività innovative in
azienda che prevede la riduzione drastica di tempi e costi per lo sviluppo di un MVP e di
conseguenza prevede una riduzione del rischio di fallimento.
Il modello nasce dalle menti dei due imprenditori della Silicon Valley Steve Blank ed
Eric Ries grazie a studi pregressi del modello Lean proveniente dal mondo Toyota negli anni
70 e di customer developement, modello proposto per la prima volta da Blank stesso nel 2005
(Blank, 2005). NEL 2008 Eric Ries introduce il termine Lean Startup (Ries,
www.startuplessonslearned.com, 2008) alla comunità della Silicon Valley, rendendolo fin da
subito popolare tra imprenditori e startupper locali. Nel 2009 Eric Ries combina la metodologia
Agile al customer developement (Ries, startuplessonslearned.com, 2009) riutilizzando parte
degli studi preesistenti per sviluppare un nuovo modello orientato verso il cliente. È questa la
chiave innovativa del modello proposto. Dall'influenza della metodologia Agile, lo stesso
modello customer developement viene riadattato per essere ciclico e nel 2010 il modello viene
profondamente collegato al modello Lean Startup introducendo il concetto di correzione della
strategia aziendale mantenendo parte dell’infrastruttura attuale (Cooper & Vlaskovits, 2010)
sotto il nome di pivot, termine coniato da Eric Ries stesso nel 2009 (Ries,
startuplessonslearned.com, 2009). Nello stesso momento Alex Osterwalder, consulente e
imprenditore svizzero, sviluppa una definizione precisa di business model, ponendo le basi di
un modello organizzativo chiamato business model design, racchiudendo in un’unica
metodologia il mondo del design e del business aziendale. Nasce così il business model canvas,
uno strumento innovativo utile per ottenere una visione d’insieme di un’azienda. Grazie al
Leancamp instituito nel 2010 a Londra il modello diventa famoso nella comunità Lean startup
e da nascono una serie di varianti di canvas, prima The Startup Toolkit di Rob Fitzpatrick,
poi il sistema di applicazioni di HackFWD creato da Tom Hulme di IDEO e infine il Lean
Canvas creato da Ash Maurya (Maurya, 2010). Steve Blank inizia una collaborazione con Alex
Osterwalder per colmare il gap del suo libro precedente riguardo al business model. Da questo
lavoro Steve Blank pubblica dal 2012 una serie di libri che raccolgono le ultime scoperte (Dorf
& Blank, 2012) e separatamente Alex Osterwalder (Osterwalder, Pigneur, Bernarda, & Smith,
45
2014) focalizzato nel creare valore per i clienti. Il libro presenta per la prima volta una serie di
strumenti dedicati alle startup per trovare adattamento al prodotto mercato. Allo stesso tempo
la comunità UX entra in conato con il concetto di Lean startup, in particolare grazie al
Leancamp a Londra e al LUXr a San Francisco dove la comunità AGILE UX incorpora la
mentalità Lean. Grazie agli studi di Ash Maurya (Maurya, 2010), nasce nel 2011 il caposaldo
del modello Lean Startup (Ries, The Lean Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous
Innovation to Create Radically Successful Businesses, 2011) e grazie ad esso in tutto il mondo
viene replicato e riadattato il modello descritto da Eric Ries.
Eric Ries definisce il termine spreco in questo modo: Secondo lo standard del
"customer value", la maggior parte degli esperimenti di ricerca dell'innovazione è uno spreco.
Lean Startup opera secondo uno standard diverso. Io suggerisco che venga definito spreco
"ogni attività che non contribuisca a conoscere i clienti". (ovvero "come si arriva al
product/market fit")”
13
. Lean Startup è una metodologia nata a supporto di Startup e aziende in
fase di espansione. Il modello tratta lo studio specifico del lancio di nuovi prodotti o servizi e
l’utente finale viene solitamente individuato nel cliente dell’Azienda. Sebbene il modello si
presenti come strumento di innovazione, esso viene generalmente utilizzato esclusivamente
nello sviluppo di nuovi prodotti e non si applica direttamente alla riprogettazione dei processi
aziendali interni. La metodologia Lean startup elimina piani complessi basati su numerose
assunzioni creando un modello bassato su aggiustamenti costanti chiamato build-measure-learn
feedback loop. Grazie a questo modello le aziende sono pronte a compiere rapidi cambiamenti,
chiamati pivot, oppure continuare a perseverare sulla strada attuale (Ries, The Lean Startup:
How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically Successful
Businesses, 2011). In ogni fase del percorso si ha una chiara idea di dove si sta andando grazie
ad un punto fisso costante: la vision. Per raggiungere quella vision le aziende creano una
strategia che include un modello di business, una product roadmap, un punto di vista riguardo
a partners e competitors e un’idea di chi saranno gli utenti finali. Il prodotto è il risultato finale
della strategia e cambia costantemente durante il processo di ottimizzazione, al contrario della
strategia stessa che ha minor frequenza di cambiamento (chiamato pivot). Difficilmente cambia
la Vision. La strategia si basa su assunzioni; il punto di partenza del modello è creare delle
13
Eric Ries, Lean startups vs lean companies, http://www.startuplessonslearned.com/2008/10/lean-startups-vs-
lean-companies.html, 2008
46
assunzioni per poter raggiungere la vision aziendale. Tramite le assunzioni è possibile creare
una strategia che sviluppi un prodotto, e tramite attività di test è possibile valutare la sua
efficacia. Il percorso iterativo proposto dal modello Lean Startup prevede di raggiungere
l’attività di test nel minor tempo possibile affiche vengano validate le stesse assunzioni proposte
per sviluppare tale prodotto per correggere il prima possibile il percorso (Ries, The Lean
Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically Successful
Businesses, 2011). È importante distinguere nelle continue iterazioni che presentano insuccessi
quali siano effettivamente servite per raggiungere lo scopo finale. Eric Ries distingue le attività
di valore quelle che alla fine portano valore aggiunto verso il cliente, mentre definisce attività
di spreco tutte le altre (Ries, The Lean Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous
Innovation to Create Radically Successful Businesses, 2011). Il modello proposto da Ries è
riassumibile nel motto Think Big, Start Small
14
. Ogni grande attività ha bisogno di tempo,
risorse ed esperienze per crescere, per questo è fondamentale partire da idee semplici veloci e
concrete su cui è possibile fin da subito fare esperienza. Per fare ciò è necessario frammentare
la visione generale in diversi sotto-problemi implementabili uno alla volta (Ries, The Lean
Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically Successful
Businesses, 2011), attraverso lo sviluppo di Minimum Viable Products (MVPs). Nel modello
Lean Startup un esperimento è ben più di un oggetto teorico, è anche il primo prodotto, che
permette al manager di iniziare la propria campagna: trovare early adopters, aggiungere
dipendenti ad ogni successiva iterazione ed eventualmente iniziare a sviluppare un prodotto
(Ries, The Lean Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create
Radically Successful Businesses, 2011). In questo modello l’attenzione nello sviluppo di un
nuovo prodotto si basa sulle seguenti 4 domande:
§ I consumatori riconoscono di avere il problema che state cercando di risolvere?
§ Se ci fosse una soluzione, la comprerebbero?
§ La comprerebbero da noi?
§ Possiamo costruire una soluzione per quel problema?
Nello sviluppo di un prodotto tradizionale spesso ci si sofferma solo sulla quarta domanda,
ignorando tutte le precedenti. Alla base del modello Lean Startup vi è la trasformazione di idee
in prodotti. Mentre un cliente interagisce con un prodotto esso genera feedback e dati (Ries,
14
Eric Ries, The Lean Startup, p.64, Currency, 2011
47
The Lean Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically
Successful Businesses, 2011). Se la costruzione di prodotti è un’attività costosa in termini di
tempo e valore, i dati sono elementi essenziali per poter rendere l’intero processo sostenibile
attraverso continui esperimenti
Figura 9 Build-Measure-Learn Feedback Loop
Il modello Lean Startup è riconducibile al build-measure-learn feedback loop. In esso sono
presenti 3 principali attività da ripercorrere nel minor tempo possibile in maniera ciclica fino al
raggiungimento del prodotto finito.
La prima fase del modello è “costruire”. Il modello prevede di entrare nella fase di
sviluppo nel minor tempo possibile grazie ad un minimum viable product (Ries, The Lean
Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically Successful
Businesses, 2011). L’MVP è alla base del loop costruisci-misura-impara poiché è lo strumento
più semplice per poter comprendere la fattibilità dell’intero progetto, per poter imparare dagli
errori e per ritornare velocemente alla situazione iniziale. Il prototipo non è il prodotto finale.
Il prodotto finale ipotizzato potrebbe essere molto complesso da realizzare, per questo non è
48
economicamente sostenibile sviluppare un prodotto finito da testare ciclicamente. Per questo è
necessario trovare modalità differenti, spesso lontane dal prodotto finito, per poter avere unno
strumento sviluppato nel minor tempo possibile e con le minori risorse possibili. Questo dà la
possibilità di mostrare fin da subito lo strumento ai clienti, e comprendere la sua validità nel
minor tempo possibile. Un metodo differente dell’MVP è il Concierge MVP. Se lo sviluppo del
prodotto è molto complesso (software complesso, hardware costoso e difficile da realizzare
come MVP) è possibile svolgere di persona quelle attività come una sorta di concierge,
emulando il prodotto/servizio e raccogliendo informazioni direttamente sul campo. Qualità e
design sono elementi secondari nella creazione dell’MVP, l’unici vero indicatore di qualità è la
soddisfazione del cliente a prescindere dalla qualità (intesa in senso stretto) del prodotto stesso.
Il lavoro di qualità dev’essere solo utilizzato per lo sviluppo del prodotto finito e non dell’MVP.
Spesso non si conosce ancora il cliente finale e allora “Se non sappiamo chi è il cliente, non
sappiamo cosa sia la qualità.”
15
.
La seconda fase del LS è “misurare”. Quando si entra nella fase di misurazione, la più
grande sfida è quella di determinare se gli sforzi per lo sviluppo del prodotto stanno portando a
un reale progresso (Ries, The Lean Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous
Innovation to Create Radically Successful Businesses, 2011). Il metodo utilizzato in questo
modello è Innovation Accounting, un approccio quantitativo che permette di valutare se il
prodotto sviluppato sta ottenendo risultati desiderabili. È necessario utilizzare metodi empirici,
quantitativi e focalizzati sul problema affinché si raccolgano solo informazioni necessarie a
comprendere a pieno lo stato delle cose. Genchi Gembutsu è un termine giapponese che
letteralmente significa “vai a vedere tu stesso” tipico del modello Lean viene applicato anche
nell’architettura Lean Startup, prediligendo una misurazione diretta sul campo a valori misurati
indirettamente. Jeffrey Licker nella sua analisi del modello Lean definisce l’attività di Genchi
Gembutsu come: Sia che mi occupassi di produzione, sviluppo del prodotto, vendite,
distribuzione o affari pubblici. Non si può essere sicuri di aver compreso davvero una parte di
un problema aziendale se non si va a vedere di persona. È inaccettabile dare qualcosa per
scontato o affidarsi ai resoconti degli altri
16
. Il modello Lean Startup prevede di soffermarsi
molto su questa attività, fondamentale per poter ottenere il cosiddetto validate learning. Il
15
Eric Ries, The Lean Startup, Currency, 2011, p.109
16
Liker J. K., The Toyota Way, McGraw-Hill Education, 2003, p.223
49
termine rappresenta uno stato di apprendimento basato su informazioni scientifiche di continui
esperimenti che permettono di testare ogni elemento della vision complessiva (Ries, The Lean
Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically Successful
Businesses, 2011). Al contrario della tradizionale attività di accounting, è stata sviluppata una
nuova attività, chiamata innovation accounting, per rispondere alle esigenze del nuovo modello.
L’attività di innovation accounting si basa su tre differenti attività. La prima è di raccogliere e
analizzare i dati dell’MVP testato dai clienti per identificare lo stato attuale. La seconda è di
riadattare l’MVP per raggiungere lo stato desiderato, questa attività può richiedere numerosi
cicli prima di raggiungere l’obbiettivo desiderato. È possibile misurare il valore del MVP
attraverso vari strumenti, tra cui lo split-test, il kanban, l’hypothesis testing e il metodo three
A’s. Lo split-test prevede di mostrare al 50% degli utenti il prototipo attuale mentre il 50% testa
la sua versione precedente (Simile all’A/B test). Il secondo strumento proveniente dalla Lean
Manufacturing è il kanban chiamato ance vincolo di capacità per la definizione sequenza di
sviluppo dei prodotti in base alla loro priorità. Il diagramma kanban rappresenta in che fase di
sviluppo è il prodotto, suddividendo le fasi in backlog, in corso, costruito e infine validato in
quanto un ciclo di sviluppo non può considerarsi concluso se non è avventa la fase di validated
learning. Lo strumento prevede di avere al massimo tre elementi per ogni fase. L’hypothesis
testing è una metodologia che prevede di testare e validare ogni singola assunzione posta a
inizio del ciclo di sviluppo e ora concretizzata in un MVP (o in una feature dell’MVP). Spesso
l’introduzione di nuove funzionalità al sistema non portano reali benefici rispetto alle versioni
precedenti, ma al contrario risultano solo dispendiose da manutenere. L’ultimo strumento
proposto si chiama three A’s, ovvero azionabile (actionable), accessibile (accessible) e
verificabile (auditable). Una metrica è detta azionabile se viene dimostrata una reale
correlazione tra causa ed effetto, viene definita accessibile se viene compresa nella sua interessa
dagli utenti e viene descritta come verificabile se tutti gli interessati possono verificare
l’autenticità dei risultati complessivi ottenuti. L'unione di metriche con tutte e tre queste
caratteristiche, rendono la fase di test efficace e universalmente accettata dall’organizzazione.
La terza fase è “imparare”. L’apprendimento non è ottimizzazione. Iterazione dopo
iterazione è possibile ottimizzare il proprio prodotto, rendendolo più efficace e migliorandone
la sua qualità. È però vero che se il prodotto sviluppato non rispecchia più la vision iniziale, lo
strumento di ottimizzazione non aiuta a comprendere la gravità dell’errore che si sta
commettendo. È quindi necessario uno strumento ad alto livello che metta sempre in relazione
50
i valori misurati dalla vision complessiva. L’attività di apprendimento si basa su due learning
milestones: la prima è data dall’MVP stesso e dai dati generati dagli utenti, la seconda learning
milestone è data dai driver di crescita a seguito della validazione dell’MVP. Se i fattori di
crescita implementati nell’iterazione successiva portano risultati significativi per i clienti allora
si ha ottenuto lo stato di validate learning. Nel caso in cui l’azienda abbia raggiunto lo stato di
decision point è possibile valutare la possibilità di pivot o perseverazione.
Dopo che sono state effettuate tutte le ottimizzazioni possibili, l’azienda raggiunge un
punto di decisione: pivot o “preseverare”, questa è la quarta fase del LS. Uno degli elementi
innovativi di questo modello è definire la possibilità di cambiare strategia. Se non si compiono
sufficienti progressi nella fase di ottimizzazione per raggiungere l’obbiettivo desiderato, è
necessario svolgere un grande cambiamento modificando le originali ipotesi strategiche. Questo
cambiamento si chiama “una correzione di rotta strutturata, progettata per verificare una
nuova ipotesi fondamentale sul prodotto, sulla strategia e sul motore della crescita
17
. Sebbene
il modello Lean Startup si basi sul metodo scientifico, ciò non significa che il fattore umano
non sia più ascoltato: vision, intuizioni e giudizi sono altrettanto importanti. “Il fallimento è il
prerequisito per l’apprendimento”
18
. Molti progetti nascono con l’idea di dover avere un
successo garantito, il fallimento non è contemplato e un cambio di rotta radicale è difficilmente
accettato. è necessario invece essere preparati al fallimento, e avere pronti una strategia per
ritornare subito sulla retta via. Quindi in ogni situazione in cui non avviene il miglioramento
degli esperimenti o la sensazione generale dello sviluppo del prodotto è che dovrebbe essere
maggiormente produttivo. Negli altri casi, continua a perseverare. Sono presenti numerose
versioni di pivot, di seguito ne vengono proposte alcune. Zoom-in pivot: ciò che inizialmente
era considerate una singola funzionalità, ora diventa l’intero prodotto. Zoom-out pivot:
situazione opposta alla precedente, l’intero prodotto diventa una singola funzionalità di un
prodotto più ampio. Customer segment pivot: Il prodotto sviluppato risolve un problema reale
di utenti reali, ma non gli utenti ipotizzati inizialmente. Customer need pivot: grazie ad una
maggiore comprensione degli utenti, si scopre che il prodotto non risolve problemi significativi
agli utenti, ma che gli utenti hanno bisogno di un prodotto differente. Technology pivot: durante
17
Eric Ries, The Lean Startup, p.147, Currency, 2011
18
Eric Ries, The Lean Startup, Currency, 2011, p.152
51
il percorso si scopre che si può raggiungere lo stesso obbiettivo con maggiore valore di ritorno
tramite una tecnologia differente.
La quinta e ultima attività del Lean Startup è “accelerare”. Il modello Lean Startup
propone una serie di strumenti per analizzare e favorire la crescita di aziende accelerando il
ciclo build-measure-learn sempre più velocemente. La crescita dev’essere analizzata con
strumenti empirici (Ries, The Lean Startup: How Today's Entrepreneurs Use Continuous
Innovation to Create Radically Successful Businesses, 2011) per poter identificare lo stato
attuale e le potenzialità future. Il modello sin dalla prima fase si basa sul principio di adattabilità,
su più livelli ed in differenti momenti durante il percorso. L’organizzazione dev’essere pronta
al cambiamento poiché, sebbene sia controproducente muoversi troppo velocemente tanto che
l’organizzazione stessa non riesca ad assimilare il cambiamento, uno stato di stallo porta al
rallentamento della crescita e al sorpasso da parte dei propri competitor. Per accelerare, Lean
Startup ha bisogno di un processo che fornisca un ciclo naturale di feedback per comprendere
se si sta crescendo troppo lentamente o troppo velocemente. Approcci tradizionali top-down o
a grandi processi fanno fatica a identificare il valore di nuovi investimenti con costi, processi o
benefici indefiniti a priori. Un metodo alternativo è utilizzare le 5-W per compiere investimenti
incrementali e far crescere la propria azienda gradualmente. Lo strumento prevede di porsi
continuamente il perché (solitamente cinque volte) fino a trovare la causa originale del
problema. Le 5-W agiscono come naturale regolatore di velocità. Maggiore è il numero di
problemi riscontrati, maggiore sarà l’investimento richiesto in soluzioni a quei problemi. Le 5-
W legano il tasso di progresso all'apprendimento, non solo all'esecuzione. Le aziende
dovrebbero passare in rassegna le 5-W ogni volta che si imbattono in un qualsiasi tipo di
fallimento, compresi i difetti tecnici, il mancato raggiungimento dei risultati commerciali o i
cambiamenti inattesi nel comportamento dei clienti. IL modello prevede comunque
investimenti costanti e proporzionali per ridurre il rischio di errore. L’elemento chiave per il
successo secondo Lean Startup è portare una distruptive innovation continua durante il
precorso. Un’innovazione sostenibile per il proprio business si basa principalmente su 3
capisaldi: risorse scarse ma sicure, autorità indipendente di sviluppo e un interesse personale
nel risultato. Modelli organizzativi tradizionali prevedono continue fluttuazioni nella
ripartizione del budget tra dipartimenti, portandoli in continua competizione, in questo modello
invece si prevede l’uso di risorse pressoché costanti (in crescita se il business funziona) nel
tempo, sebbene inizialmente possano essere limitate, così da poter pianificare investimenti in
52
un arco di tempo maggiore. Dato che il modello prevede numerose prove e reiterazioni, avere
una forte burocrazia e necessità di approvazioni rallenterebbe soltanto il processo. Per questo il
team di innovazione dovrebbe essere indipendente, per poter ridurre i tempi di esecuzione e per
poter essere più trasversali possibile innovando ogni aspetto dell’azienda, senza dipendere da
un solo dipartimento, il che sarebbe limitante. L’ultimo caposaldo della disruptive innovation
è avere un interesse personale nel successo. Il migliore incentivo in azienda è valorizzare lo
spirito imprenditoriale dei singoli individuale, per questo è necessario correlare i successi a
delle innovazioni dei Lean Startupper analizzandone le performance a lungo periodo.
Il modello Lean Startup è particolarmente indicato per tutti i gruppi di lavoro che si
occupano dello sviluppo di un nuovo prodotto o servizio da offrire ad un cliente. Sebbene sia
in buona parte riadattabile allo sviluppo di funzionalità interne all’azienda, esso non è
specificamente sviluppato per rispondere a tale esigenza. Inoltre, il modello non descrive
strumenti operativi specifici per ogni fase di sviluppo, bensì il modello dovrebbe essere
interpretato come linea guida da seguire nell’approcciarsi al problema.
53
2.7. Lean Innovation: Combinare le metodologie
Il termine Lean significa introdurre un approccio snello e ben ordinato, riducendo
sistematicamente gli sprechi ed eliminando i processi privi di valore aggiunto (Sehested &
Sonnenberg, 2014); Innovation invece significa creare valore risolvendo i problemi, è
necessario avere un pensiero creativo per affrontare il problema basandosi sull’esperienza
acquisita durante il processo stesso (Sehested & Sonnenberg, 2014). L’unione dei due termini
porta alla nascita di un modello di sviluppo di nuove idee in maniera efficiente attraverso la
continua esperienza raccolta sul campo. Ad oggi nei campi R&D non è applicabile il lean
thinking tradizionale per la gestione dell’innovazione (Schuh, 2013). Al contrario, la gestione
dell’innovazione snella necessita di una metodologia concreta strutturata che favorisca un
processo miglioramento continuo attraverso fasi di lavoro universalmente accettate: da qui
nasce il termine Lean Innovation Management.
Nei capitoli precedenti sono stati analizzati i principali modelli di innovazione provenienti da
differenti ambiti di lavoro, individuando gli strumenti più utilizzati, studiando i punti di forza e
analizzando i loro limiti.
Figura 10 Sankey chart modelli d'ispirazione a Lean Innovation Management
54
La metodologia proposta, che prende ispirazione dai modelli visibili nella Figura 10, è
riassumibile nel motto Do the right thing, Do it right, Do it better
19
, ovvero trovare ed
eliminare gli sprechi, lavorando nel modo ottimale e migliorando iterazione dopo iterazione.
Il Business Process Reengineering è il primo approccio da introdurre nell’analisi dei
processi aziendali e nella loro riprogettazione. Il modello presenta tuttavia alcuni limiti, tra cui
una visione del problema analizzato esclusivamente ad alto livello tramite indicatori e metriche,
rendendo l’analisi esclusiva sui processi e non sulle persone, in quanto attuali o potenziali
detentrici dei processi in analisi. Inoltre, il modello prevede una singola attività di
miglioramento straordinario, limitandosi a implementare un singolo e importante progetto a
discapito di una metodologia di miglioramento continuo.
La metodologia Lean Production è stata il riferimento per la gestione e il miglioramento
nella manifattura per decenni e ha ispirato numerosi modelli, anche esterni al contesto
industriale produttivo, tra cui i più noti sono la metodologia Agile, la Lean Startup, l’dea di
Lean Canvas e molte altre ancora. La metodologia si sofferma sui diversi principi che devono
guidare un’organizzazione nell’attività di miglioramento continuo, sebbene non sia specificato
un approccio specifico per creare e portare un’idea innovativa di miglioramento dei processi
aziendali.
Il Design Thinking è all’origine del processo di innovazione, in esso è possibile ritrovare
strumenti per comprendere, osservare e definire il punto di vista delle persone, è perciò
fondamentale iniziare il percorso di innovazione ponendosi le giuste domande (chiamate anche
problem statements) e utilizzando degli strumenti utili al fine di comprendere al meglio i reali
bisogni delle persone (Lewrick, Link, & Leifer, 2020). Il processo di ricerca è iterativo e
continua ad essere utilizzato in ogni fase successiva del modello Lean Innovation. Il Design
Thinking non si limita a comprendere le persone ma in esso sono presenti strumenti utili per
creare un prodotto o servizio innovativo grazie a elementi utili a ideare, prototipare e testare in
maniera sistematica sempre basandosi sull‘esperienza umana. Il modello termina con la UX
retrospective, un’analisi a posteriori dell’intera attività svolta per migliorare iterazione dopo
iterazione.
Le metodologie Agile e DevOps provengono dal mondo dello sviluppo del software,
sebbene siano applicabili a diversi ambiti, la oro origine ha portato alla creazione di fasi di
19
C. Sehested, H. Sonnenberg, “Lean Innovation: A Fast Path from Knowledge to Value”, p.3, Springer, 2011
55
sviluppo tipiche esclusivamente della programmazione. Il modello presenta però numerosi
elementi innovativi indispensabili per l’attività di creazione di un processo che abbia un
effettivo valore aggiunto all’azienda.
Infine, è stato analizzato il modello Lean Startup, in quanto modello di creazione di un
nuovo prodotto o servizio basandosi sin dalle prime fasi sull’opinione delle persone. Il modello
è stato sviluppato specificatamente per lo sviluppo di un nuovo prodotto per un cliente ma può
essere facilmente replicabile in differenti ambiti.
Da questa analisi emerge come sia necessario combinare le precedenti metodologie per
creare uno strumento universale applicabile per il miglioramento dei processi aziendali, in
particolare tramite le tecnologie tipiche dell’industria 4.0. In questo panorama nasce la figura
di Innovation Manager, o più precisamente Lean Innovation Manager, in quanto soggetto che
ha il compito di analizzare, ideare, prototipare, testare e migliorare i processi aziendali
attraverso i principali strumenti provenienti dai diversi modelli proposti.
Nel 2015 viene proposto un primo studio relativo all’unione dei principali modelli di
innovazione (Ximenes, Alves, & Araújo, 2015), ma è il gruppo Gartner che nel 2016 propone
e rende nota una nuova metodologia operativa basata sull’unione dei modelli DT, Agile e LS
(Gartner, 2016). Nell’anno successivo si struttura nel mondo del design una metodologia
operativa basata sull’utilizzo sequenziale di DT, co-creazione, business design & Agile, ricerca,
Lean Startup e scalabilità (Link, 2017). Successivamente diversi studi vengono presentati, con
particolare focus sullo sviluppo di uno strumento trasversale applicabile all’intera
organizzazione (Schneider, 2017), fino alla definizione di una metodologia strutturata nel 2019
da parte di Jurgen Appelo (Appelo, 2019).
56
Figura 11 Ciclo di Sviluppo Lean Innovation Management
Nel suo libro, Appelo propone una metodologia di innovazione basata sul concetto da lui
proposto di Shiftup Innovation Vortex, suddivisa in 6 fasi operative: “empatizzare”,
“sintetizzare”, “ipotizzare”, “esternalizzare”, “sensibilizzare” e “sistematizzare”. Nella prima
fase denominata “empatizzare” è necessario comprendere i bisogni delle persone e
dell’organizzazione, attraverso i numerosi strumenti di interazione provenienti dal mondo del
DT e dagli studi analitici tipici del BPR e della metodologia Lean. La seconda fase è
“sintetizzare”, ovvero rielaborare i dati in metriche e indicatori utili per poter valutare lo stato
delle cose e pianificare le attività successive. La terza si chiama “ipotizzare”, in questa fase è
necessario utilizzare gli strumenti creativi per trovare una possibile soluzione al problema. La
quarta fase si chiama “esternalizzare”, qui viene sviluppata l’idea prototipale ottenuta nella fase
precedente, è necessario completare un MVP per poter comprendere se l’idea proposta rispetta
l’obbiettivo prefissato. Nella quinta fase, chiamata “sensibilizzare”, viene presentato l’MVP al
cliente, che genererà dei feedback utili a trarre conclusioni sul progetto in corso. L’ultima fase
57
è ”sistematizzare”, ovvero correggere e migliorare il lavoro svolto; in questa fase la
retrospettiva è duplice, è sia legata al progetto in corso, che alla modalità operativa dal team.
Il nuovo modello è riassumibile nel seguente motto “Think Big, Start Small, and Adapt
Fast
20
, ovvero crea una visione di lungo termine, frammenta problemi complessi in sotto-
problemi implementati in differenti round e adatta il risultato e il modo di lavorare basandoti
sull’esperienza maturata.
È possibile vedere il modello Lean Innovation attraverso l’analogia della Tornado Valley.
Un intervento di miglioramento aziendale è rappresentabile come un susseguirsi di fasi cicliche.
Il primo ciclo di lavoro dev’essere molto veloce per poter raggiungere l’MVP nel minor tempo
possibile e poter così validare l’approccio proposto, l’analisi è ad alto livello ed il prototipo è
una rappresentazione semplificata del problema in analisi; il secondo ciclo approfondisce alcuni
degli aspetti critici entrando maggiormente nel dettaglio del problema, il processo richiede più
tempo a causa del maggior numero di informazioni da raccogliere e dalla necessità di sviluppare
un MVP più strutturato; così via fino ad arrivare ad un progetto completo, implementato e già
avviato che rende via via non necessario il proseguirsi di un ciclo successivo, come un Tornado
che alla sua base ha mulinelli piccoli ed estremamente veloci e salendo ne ha man mano sempre
più grandi e lenti fino ad arrivare alla sua sommità dove si dissolvono nell’ambiente. Ecco
spiegata la prima analogia. Ma quanti tornado (implementazioni) può sopportare un’azienda
simultaneamente? E con quali dimensioni (costi)? Qui subentra la seconda analogia, ovvero la
Tornado Valley come rappresentazione del budget imputabile agli investimenti in innovazione.
Più un’azienda ha un utile elevato, più il budget per l’innovazione sarà significativo e più la
valle sarà vasta, potendo così accogliere un numero crescente e di dimensioni importanti di
Tornado parallelamente. Spesso poi sono presenti diversi Tornado (progetti) allo stesso tempo,
ognuno con dimensioni ed età differenti che possono scontrarsi, modificarsi a vicenda oppure
fondersi tra loro in un Tornado ancora più grande. Quest’ultimo sarà il caso presentato nei
prossimi capitoli.
20
Chunka Mui al Mack Institute for Innovation Management spring conference 2014
58
3. Analisi As-Is dell’Azienda
Nel terzo capitolo viene presentato l’azienda Metalprint S.P.A., partner del gruppo MPJ, che ha
ospitato l’attività di digitalizzazione dei processi aziendali. Sono riportate le informazioni
relative al settore produttivo, all’infrastruttura aziendale, alla struttura organizzativa e ai mercati
di destinazione. Viene svolta in seguito un’analisi complessiva del flusso logistico-produttivo
attraverso gli strumenti presentati in precedenza, come prima fase operativa, secondo il modello
Lean Innovation. In particolare, sono presentate le attività produttive interne caratteristiche di
ogni prodotto e le attività opzionali applicate ad una gamma ristretta di semilavorati. Il flusso
logistico, invece, si suddivide in logistica in ingresso, logistica conto terzi e logistica in uscita,
in quanto aree autonome nell’organizzazione. Infine, sono analizzate le attività svolte da ogni
operatore nell’ufficio supply chain, processo necessario per poter valutare l’attuale stato delle
cose e per individuare le mansioni più gravose prive di valore aggiunto per le persone.
59
3.1. Metalprint S.p.A.
Metalprint S.p.A. fa parte del gruppo MPJ con sedi in Italia e in Canada e vendita capillare in
tutto il mondo. L’azienda si occupa dello sviluppo, della progettazione e della produzione di
componenti in ottone e alluminio forgiati e lavorati. In particolare, opera nel mercato nei corpi
in ottone per l'industria idrica e oil&gas, sistemi di riscaldamento e refrigerazione con alte
specifiche di qualità, sicurezza ed estetica e nei componenti in alluminio per il settore
automotive, powersport e motociclistico dai componenti critici per la sicurezza a componenti
con specifiche estetiche con requisiti elevati (MPJ Group, 2023).
Per i componenti in alluminio vengono utilizzate principalmente le leghe 6082
(comunemente utilizzata per i telai nel settore automotive), 6061 (per componenti ad alte
caratteristiche, come corpi di valvole per l’idrogeno, 7075 (con elevate caratteristiche
meccaniche), 2014 (una delle più utilizzate con elevate caratteristiche meccaniche) e 4032k
(Lega ad alto tenore di silicio in fase di sviluppo, adatta a componenti che richiedono un'elevata
resistenza termica e all'usura, ad esempio parti di compressori) (MPJ Group, 2023). Tra i
componenti in alluminio per motocicli troviamo morsetti per albero tripli, manubri, corpi di
valvole di sospensione, pedaline e supporti per pedaline, pedali del freno e leve del cambio;
per i quad troviamo supporti del piantoni di sterzo, corpi di valvole di sospensione, mandrini a
snodo; per motoslitte troviamo supporti per l'intelaiatura e lo sterzo, supporti delle pulegge
motrici, telai modulari, mandrini motoslitta; per autoveicoli troviamo radiatori dell'olio della
trasmissione, e corpi di valvole di sospensione; Oltre ai mercati sopra citati, MPJ fornisce
componenti a diversi mercati di produzione di massa o di nicchia, da quello sportivo a quello
navale, come corpi di pistoni dei motori navali o componenti per il tiro con l’arco (MPJ Group,
2023).
Lo stabilimento produttivo ha una superficie di 17.000 Mq (MPJ Group, 2023),
suddiviso 11 aree di lavoro, 3 logistiche e 8 produttive; sono presenti un magazzino materia
prima (barre alluminio/ottone), un magazzino spedizione e rientro semilavorati da terzisti e un
magazzino finito, mentre i reparti produttivi sono 1 area taglio/grafitatura, 2 aree
stampaggio/tranciatura con 15 presse 100% robotizzate nelle operazioni di carico/scarico,
lubrificazione e monitoraggio della temperatura della billetta, 1 area trattamenti termici
dedicata a Solubilizzazione, indurimento e invecchiamento certificati CQI9; 1 area sabbiatura,
60
2 aree lavorazioni meccaniche con 36 linee di lavorazione, sia di tipo transfer (fino a 54
mandrini) che CNC a 5 assi e 1 area finitura/assemblaggio semiautomatica per il controllo delle
caratteristiche critiche (MPJ Group, 2023).
Analizzando la struttura organizzativa, in particolare negli ambiti produttivo-logistici,
si nota come al di sotto dell’AD sia stata suddivisa la direzione di stabilimento e la direzione
supply chain. L’ufficio supply chain, amministrato da un manager e da un direttore supply
chain, si occupa della logistica e del controllo della produzione, in particolare nell’area logistica
sono state individuate figure specifiche per la gestione del magazzino materia prima, per il
magazzino terzisti, per il magazzino finito e una figura per la fatturazione e spedizione, mentre
per l’aspetto produttivo sono presenti due pianificatori (uno area stampaggio e uno are
lavorazioni meccaniche), una figura che controlla i dati produzione e una figura che si occupa
del WIP. La direzione di stabilimento gestisce invece l’ufficio tecnico, il reparto IT, l’ufficio
qualità, gli acquisti l’area facility & sustainability e i responsabili delle varie aree produttive.
In particolare, sono state individuate le seguenti aree: produzione stampaggio tranciatura e
taglierine, costruzione e manutenzione stampi, finitura e imballaggio, produzione lavorazioni
meccaniche, trattamenti termici.
61
Figura 12 Current State map MPJ Group (Value Stream Map)
62
3.2. Flusso Produttivo
Il processo produttivo si divide in 5 differenti fasi, che seguono l’Ordine Di Produzione (ODP)
di un prodotto. Ogni prodotto presenta un numero fisso di operazioni (taglio, stampaggio,
tranciatura, lavorazioni meccaniche) e un numero variabile (grafitatura, trattamenti interni,
lavorazioni esterne, finitura, assemblaggio). La pianificazione delle fasi è svolta su più livelli,
come mostrato nella Figura 12.
A seguito dell’ingresso delle barre nel magazzino materia prima, le operazioni di taglio,
grafitatura, stampaggio, tranciatura e trattamenti termici sono sotto la stessa supervisione. Le
lavorazioni meccaniche sono supervisionate dal responsabile produzione lavorazioni
meccaniche mentre i processi di finitura, assemblaggio e imballaggio sono supervisionati dal
responsabile finitura.
La prima attività produttiva comune a tutti i prodotti è il “taglio” della barra. Nello
stabilimento, l’area di taglio è contigua al magazzino barre e alla successiva area stampaggio;
sono presenti 15 taglierine, una troncatrice Kaltenbach e 3 grafitatrici. La pianificazione di tale
operazione è svolta direttamente dal responsabile stampaggio tranciatura e taglierine seguendo
la coda lavori pianificata settimanalmente per l’operazione successiva di stampaggio e la
disponibilità attuale della materia prima. A seguito della pianificazione vengono preparati tanti
ODP cartacei quanti cassoni si stima vengano riempiti in tale fase, da questo momento in poi
l’avanzamento dell’ODP con i relativi dati dei semilavorati si muove manualmente tramite al
documento cartaceo apposto su ogni cassone. A seguito del prelievo (FIFO) dal magazzino
materia prima, la barra viene trasferita alla macchina di taglio, vengono riempiti uno o più
cassoni e in seguito i cassoni vengono movimentati fino al magazzino intermedio spezzoni (non
ancora identificato a gestionale). L’avanzamento effettivo dell’ODP da gestionale avviene solo
all’inizio dell’operazione successiva, quando l’operatore spara il codice a barre dell’operazione
precedente sull’ODP cartaceo. Alla fine di questa (e di tutte le operazioni) avviene una fase di
controllo di ogni cassone, in questo caso dal responsabile taglio. I risultati di tale controllo sono
l’applicazione di un bollino sulla riga dell’ODP dedicata a tale operazione: verde se il cassone
di semilavorati è ok, giallo se può esserci del materiale difettoso, rosso se il cassone va
rottamato. Secondo il modello attuale è possibile prelevare i cassoni per l’operazione successiva
63
(e di conseguenza far avanzare l’ODP a gestionale) solo se sono presenti i bollini (verdi o gialli)
nell’operazione precedente.
Per alcuni semilavorati viene svolta un’operazione intermedia di grafitatura, tale operazione
non è identificata come fase effettiva sull’ODP.
L’operazione successiva, tipica di tutti i prodotti è lo “stampaggio”. Tale operazione è
guidata dai pianificatori (uff. supply chain) che organizzano settimanalmente la sequenza
produttiva. La pianificazione inizia la settimana precedente e si conclude il giovedì della
settimana precedente con l’approvazione della sequenza produttiva. Sono possibili delle
variazioni in itinere per fermi macchina o precedenze straordinarie. Se gli ODP sui cassoni
presentano il bollino di approvazione della fase precedente, allora possono essere prelevati dal
magazzino intermedio e possono proseguire nell’area di stampaggio. Avviene un setup dei forni
e delle macchine di stampaggio ed un successivo controllo di setup; in seguito gli spezzoni
vengono caricati sui forni, avviene il riscaldamento degli spezzoni con controllo di processo
automatico ed un successivo prelievo robotizzato dai forni fino agli stampi. L’attività
successiva di stampaggio viene controllata dall’operatore a bordo macchina. A conclusione di
tale operazione, il controllo con successiva apposizione del bollino sugli ODP dei cassoni viene
eseguito dal controllo qualità stampaggio.
Prima della fase successiva di tranciatura può avvenire un trattamento termico di
solubilizzazione, controllato da Rif. Area Trattamenti termici. L’attività di “solubilizzazione”
(opzionale) avviene in linea a seguito dello stampaggio. È’ un processo automatizzato, sotto la
supervisione del riferimento area trattamenti termici. Il semilavorato avanza in linea per
l’operazione successiva di tranciatura sotto la diretta supervisione del responsabile stampaggio.
L’operazione di “tranciatura” viene eseguita in linea, a seguito dell’attrezzaggio, del
controllo di setup e del rilascio benestare dal responsabile area stampaggio. Il controllo di
processo viene eseguito dall’operatore a bordo macchina e dal controllo qualità stampaggio. A
seguito di tale operazione il materiale può subire una seguente operazione di invecchiamento.
Per svolgere tale operazione è stato standardizzato il processo di posizionamento dei
semilavorati in speciali cassoni che vengono blindati fino al completamento
dell’invecchiamento e alla delibera da CQ-ST. Il materiale viene quindi spostato nel buffer
invecchiamento.
Le operazioni seguenti sono di “trattamento” svolto internamente, alcune delle quali
sono di “invecchiamento” e di “sabbiatura”. Il semilavorato viene avanzato alla seguente fase
64
di invecchiamento (opzionale). Il controllo dei parametri di processo viene svolto dal
riferimento area trattamenti termici, mentre il controllo dell’intero processo viene svolto dal
controllo qualità stampaggio. Il materiale prima di svolgere l’effettiva operazione di tempra
viene immagazzinato nel magazzino intermedio. Il posizionamento dei cassoni in questa area
di buffer stock è significativo rispetto al forno designato e all’ordine di lavorazione. Terminato
il processo di invecchiamento è necessaria una delibera da CQ-ST che sblocca i cassoni, blindati
fino a questo momento. Il materiale viene quindi avanzato. Sebbene la maggior parte dei
trattamenti venga commissionata a terzisti, l’operazione di sabbiatura (opzionale) avviene
prevalentemente internamente. Nello stabilimento sono presenti 5 sabbiatrici sotto la diretta
supervisione del riferimento area stampaggio. Il materiale viene avanzato fino a quest’area di
lavoro, viene lavorato e poi portato all’area di buffer stock della lavorazione successiva.
Il materiale può essere spedito a terzisti per subire “lavorazioni esterne” aggiuntive o
per compensare saturazioni/rotture macchine interne. Tali operazioni possono essere soda,
smerigliatura, vibratura e molte altre. Se il semilavorato deve subire trattamenti esterni allora
esso viene avanzato verso il magazzino Terzisti dove verrà pesato, spedito e ricevuto in rientro.
Le “lavorazioni meccaniche” sono operazioni comuni a tutti i semilavorati, per questo
l’area di buffer stock precedente a tale operazione è cresciuta nel tempo sino ad avere
attualmente tende provvisorie. A seguito del setup e controllo macchine, avviene il processo di
lavorazione, il controllo in linea avviene dall’operatore a bordo macchina mentre il controllo
dell’intero processo avviene dal controllo qualità lavorazioni meccaniche. Terminato il
processo il materiale può essere imballato a bordo macchina (se ha terminato il suo ODP)
oppure può essere movimentato nell’area buffer stock in attesa delle lavorazioni successive.
La fase successiva (opzionale) è la “finitura”, operazione manuale di precisione. A
seguito di tale operazione il materiale può seguire differenti percorsi: può essere movimentato
verso il magazzino terzisti per successive riprese, può essere assemblato con altri componenti
oppure può essere imballato come materiale finito. Prima di iniziare la fase di “assemblaggio”
avviene un controllo visivo per poter identificare possibili difetti estetici; in seguito, avviene il
setup e controllo strumenti di assemblaggio. Durante questa fase il controllo avviene
dall’operatore a bordo macchina. Si ha un successivo controllo visivo per identificare
nuovamente possibili difetti estetici, il materiale finito viene quindi imballato e
successivamente portato al magazzino finito.
65
3.3. Flusso logistico
All’arrivo della materia prima il magazzino barre verifica che il DDT coincida con la merce
ricevuta, e la scarica dall’automezzo senza ubicarla. L’ufficio logistica registra la merce e
successivamente crea le etichette con codice a barre univoco da apporre su ogni fascio di barre.
Il responsabile di magazzino si reca nell’ufficio logistica per ricevere le etichette, le porta al
magazzino, etichetta la merce e solo in questo momento può ubicare la materia prima a
magazzino, versando la merce anche a gestionale. Non è nemmeno possibile fare avanzare la
materia prima in produzione prima che questa fase sia avvenuta. Si è spesso in ritardo, causando
problemi di spazi per la mancata ubicazione a scaffale e fermi di produzione per l’impossibilità
di avanzamento. Non sono rari anche casi di avanzamento di produzione senza etichettatura,
spesso con errori. Il magazzino barre dovrebbe operare in ottica FIFO ma attualmente la
scaffalatura unidirezionale per più fasci di barre contemporaneamente non facilita tali
operazioni. Ci sono inoltre difficoltà di spazi, a causa di una preparazione di ubicazione, e per
il limite di merce che l’attuale magazzino può portare.
Diverse operazioni di lavorazione vengono esternalizzate verso terzisti. Tali operazioni
sono esplicitate sull’ODP, ma i terzisti si riservano di svolgere un numero superiore o inferiore
di operazioni affinché il semilavorato sia lavorato correttamente. Per questa fase la merce si
muove negli stessi cassoni utilizzati in produzione, con la presenza dell’ODP cartaceo apposto
esternamente che ne esplicita le fasi da dover compiere, i cassoni vengono pesati alla partenza
e all’arrivo. Quando la merce è rientrata è necessario registrare i DDT relativi i cassoni, l’ufficio
Supply Chain inserisce i dati del DDT a gestionale e solo in seguito è possibile far avanzare la
merce fino all’operazione successiva.
Il prodotto finito già imballato e pesato viene spostato al magazzino finito e stoccato
fino alla spedizione verso il cliente. Il prodotto può essere stoccato a lungo periodo come stock
di sicurezza da accordi commerciali verso il cliente oppure può essere in attesa del
completamento lotto e dell’arrivo dell’automezzo per la spedizione immediata. All’arrivo del
veicolo, vengono caricati i pallet, vengono successivamente consegnati i dati di pesata dei
singoli pallet all’ufficio supply chain che li registra e crea la bolla di accompagnamento.
66
3.4. Personale supply chain
A seguito di una riunione indetta dal direttore supply chain per l’ufficio, sono state analizzate
tutte le mansioni che ogni soggetto svolge regolarmente con le relative tempistiche giornaliere,
settimanali o mensili. Il lavoro ha l’obbiettivo di bilanciare il carico di lavoro dei singoli
soggetti e di individuare le mansioni con maggiore impatto in termini di tempo dedicato. I
risultati di tale intervento sono stati riportati nella seguente tabella, in riferimento alle mansioni
e al ruolo che ognuno dei sette operatori ha nell’ufficio supply chain. Il lavoro di raccolta dati
è stato congiunto con l’intero ufficio.
Figura 13 Legenda mansioni Uff. Supply
Chain
/Coinv. Parz.
XCoinvol to
XResp. Parz.
XResponsabile
LEGENDA
67
OPERAZIONI H L V C P S D T/C
Controll o MES coere nza c on prod. Real e XX
DDT us cita terzi sti dopo veri fica pesa ta con eventua le co rrezzi one XXXX 2,5h/d (10'/Bolla)
DDT tri angol azion i (Cre azio ne pes ate e ODA) XX X 2h/Wk
DDT rottame (verifica procedura pesa, giroconto, rettifica, emis sione doc.) XX X / 1h/d
Verifica qtà. rottame e pianificazione ritiri XX X 0,5h/d
Verifica giazenze c/o terzisti /X X /8h/M
Verifica avanzamento ODP su COOIS e chiusura XXXXX/3h/d
Programmazione fornitori (mai l, tel.) XX X 2h/d
Organizzazione trasporti verso/da terzisti XX X 1h/d
Istruzioni a mag azzino terzisti XX X 3h/d
Registrazione DDT entrata terzisti con controllo pesata e ODP XXX/ / 8h/d
Registrazione DDT barra/packing list/CO. trasformazione X/ X 2h/d
Registrazione DDT rottame in acquisto per C/O trasformazione XX2h/M
Pianifi cazione i mport rottam e e regi stro cari co/scarico X/3h/M
Carica mento ODP a si stem a /X/X2h/d
Redazione ordini fornitore per acquisto materia prima XX / 3h/Wk
Pianifi cazione i nterattiva /X/X3d/Wk
Verifica disponibilità materia prima XX/X3h/Wk
Rapporti con commerciale (solleci ti, anticipi/posticipi, inserimento ordini) X X XX1h/d
Rapporti con produzione (cambio programmi) /X/X0,5h/d
Scansione e archiviazione documenti XXXXXXX 0,5h/d
Controll o e s blocco orchest ratore /X0,5h/d
Correzz ione e rrori workfl ow /X X 0,5h/d
Correzi one err ori COG I XX0,5h/d
Verifica fisica stock e definizione avanzamento flusso (WIP) XXXXX0,5h/d
Lista ma trici per meccanica XXXX X 10'/d
Lista im balli per terzisti XXX
Gestione cassoni (recupero da clienti/forinitori) XXX / X5'/d
Registrazione DDT cassoni XXX / / X1h/Wk
Registrazi one DDT vendita, fatturazione, PL, dichiaraz. Exp., Etichette extra UE X X XIT 5'/EU 30'/EXTRA-UE 2h/ bolla
Organizzazione trasporti verso clienti X X X5'/d
Istruzioni a mag azzino spedizioni X X X30'/d
Conto dep osito / X X3h/Wk
Inserimento resi clienti / / X1h/Wk
Inserimento scarti MES/ Gestionale X / X XX4h/Wk
Saldi C/trasformazione clienti X / / X2h/M
Controll o gi azenz e fi nito e rett ific a XXXXX2h/Wk
preparaz ione li sta spedizi oni XX15'/Wk
Inserimento ordini campionatura /X10'/Wk
Inventario XXXXXXX
Correzi one e modif ica documen ti f ornutori XXX X5'/bolla
Scansione/acquisizione materiale reso X/ X 5'/doc
Supporto amministrazione XXX1d/M
Modifica Transa zioni MES X / X2h/Wk
Comunic azione ODA clie nti X X XX15'/Wk
Controll o ZR OTTA ME / / X2h/d
File spedizioni con PoD X4h/M
Reportistica X3h/Wk
Gestione magazzino terzisti X4h/d
68
Com’è possibile vedere nella Figura 14 ogni soggetto gestisce parzialmente o integralmente
differenti attività. Tra i processi registrati sono state riconosciute come critiche le seguenti
attività: la registrazione di Documenti Di Trasporto (DDT) in entrata da terzisti con controllo
di pesata e di Ordine di Produzione (OdP) che richiede 8h/d, svolta integralmente dal primo
operatore, parzialmente dal secondo e saltuariamente dal terzo operatore; la registrazione di
DDT di materia prima, packing list e conto trasformazione che richiede 2h/d, svolta
integralmente dal secondo operatore e parzialmente dal quarto operatore; la creazione di DDT
in uscita verso terzisti dopo verifica di pesata ed eventuale correzione che richiede 2,5h/d
oppure 10’/bolla, svolta integralmente dal secondo, terzo e quarto operatore e parzialmente dal
primo operatore; le istruzioni di varia natura al magazzino terzisti, spesso con interventi di
persona che richiedono 3h/d, svolte integralmente dal terzo e quarto operatore e parzialmente
dal secondo; il lavoro relativo a DDT in ingresso/uscita relativi al rottame che richiede 1h/d,
svolto integralmente dal secondo operatore e parzialmente dal terzo e quarto operatore. La
riunione ha fatto emergere come sia necessario intervenire nell’ufficio per poter alleggerire il
carico di lavoro complessivo, in particolare nelle attività ripetitive per poter gestire
maggiormente le mansioni ad alto valore aggiunto quali verifiche, controlli, attività analitiche
e decisionali. È inoltre evidente come diverse attività siano svolte in ritardo rispetto a quanto
previsto a causa dell’eccessivo carico di lavoro degli operatori nell’area analizzata.
69
4. Sviluppo del Progetto
Nel seguente capitolo viene descritto il flusso di lavoro applicato secondo la metodologia Lean
Innovation Management per portare un miglioramento continuo attraverso differenti round di
digitalizzazione. Sono descritti gli strumenti utilizzati ed i risultati ottenuti a seguito di ogni
attività, sino al raggiungimento del progetto definitivo. Il primo progetto individuato
rappresenta lo sviluppo di un gemello digitale relativo alle bolle di accompagnamento per il
magazzino materia prima. Al completamento del primo round si è presto avviato il secondo
round esplorativo. Il secondo progetto riprende parte del primo per poter sviluppare un digital
twin delle bolle di accompagnamento per il magazzino conto terzi e per il controllo delle stesse
attraverso un’attività di pesata semi-automatizzata digitalmente. Il percorso termina con
l’unione dei singoli progetti in un unico macro-progetto, supportato da indicatori economici di
ritorno dell’investimento.
70
4.1. Roadmap di Digitalizzazione
A seguito della fase di analisi dello stato delle cose relativa all’ufficio supply chain è stata svolta
una prima attività di brainstorming delle possibili soluzioni ad alto livello relative alle criticità
riconosciute; le possibili soluzioni sono state successivamente presentate al responsabile IT e
ai riferimenti di area per raccogliere i primi feedback delle idee. In seguito, è stata sviluppata
una matrice impatto sforzo per definire un ordine di priorità degli interventi proposti in termini
di fattibilità e vantaggi proposti.
Figura 15 Matrice impatto-sforzo
Come riporta la Figura 15 sono state analizzate divere possibili soluzioni ai problemi
riconosciuti. Le principali implementazioni che sono state selezionate per uno studio
71
approfondito sono state: l’inserimento automatico di bolle provenienti da fornitori di materia
prima (massimo indice d’impatto e medio indice di sforzo), il caricamento automatico di bolle
relativo alla merce proveniente dai terzisti (massimo indice d’impatto e medio indice di sforzo)
e l’interfacciamento delle pese con il gestionale interno per eliminare l’inserimento manuale
delle pesate della merce in rientro dai terzisti (massimo indice d’impatto e massimo indice di
sforzo). In seguito, è stata indetta una riunione con il direttore supply chain per valutare le tre
possibilità ed è stata approvata l’esplorazione del progetto relativo all’”inserimento automatico
di bolle di materia prima”.
Per il modello Lean Innovation il singolo intervento dev’essere contestualizzato in un'attività
di miglioramento continuo a lungo termine, congruentemente a ciò è stata creata una roadmap
con tali caratteristiche di digitalizzazione della Supply Chain da aggiornare continuamente
durante il percorso.
Figura 16 Roadmap digitalizzazione supply chain
La Figura 16 è una prima rappresentazione della sequenza di attività da svolgere per
raggiungere un ideale stato di completa tracciatura e digitalizzazione della filiera logistico-
72
produttiva. Il Gantt chart è rappresentativo esclusivamente per la sequenzialità degli interventi
e non delle tempistiche esatte, poiché una visione a lungo termine relativa al miglioramento
aziendale è difficilmente schedulabile. Minore è la finestra temporale analizzata e maggiore
sarà la precisione in termini di tempo di esecuzione del progetto, per questo in parallelo ad un
Gantt chart a macro-livello dell’ordine di sequenza delle implementazioni sarà creato un Gantt
chart per ogni singolo progetto nel momento in cui verrà avviato con le relative tempistiche.
Dalla Figura 16 è possibile notare come siano stati pianificati diversi round, ovvero progetti
ridotti in termini di complessità secondo l’ottica Lean Innovation per poter garantire la raccolta
di risultati concreti in termini di ritorno economico e di validità dei progetti nel minor tempo
possibile. È importante sottolineare come i primi round siano maggiormente strutturati mentre
gli ultimi round siano ipotizzati ad alto livello, poiché i progetti si continuano ad analizzare nel
momento in cui viene avviato lo studio del singolo progetto. Durante il primo round è stato
analizzato il processo di inserimento e controllo dati per il magazzino materia prima. Il round
distingue l’attività di raccolta dei dati in un formato digitale e l’attività di controllo e
caricamento dati a gestionale. Il secondo round invece rappresenta la gestione dei dati
provenienti dal magazzino conto terzi. In questa fase sono state individuate due differenti
attività, il rientro merce con conseguente pesata di verifica e l’inserimento dati con
avanzamento merce alla fase successiva sul gestionale. Come si può notare dalla Figura 16
parte dei progetti in fase di analisi hanno ricadute in progetti futuri e non sarebbe possibile
invertire l’ordine di sviluppo, poiché il successo di una di quelle fasi è strettamente dipendente
dalle attività svolte precedentemente.
73
4.2. Digitalizzazione Bolle Materia prima
Nei giorni successivi è iniziata l’attività di analisi approfondita dell’attuale processo di
inserimento bolle di materia prima, attraverso affiancamento, interviste e monitoraggio di
attività con il responsabile dei sistemi informativi (IT), con il riferimento materia prima (supply
chain) e con il riferimento magazzino materia prima (warehouse). Sono stati individuati i limiti
del sistema attuale e sono emerse le prime criticità relative al progetto. È stato creato un use
case diagram per rappresentare con maggiore precisione le attività attualmente svolte per
l’inserimento dei dati.
Figura 17 Use Case Diagram AS-IS bolle Materia Prima
Il processo attuale di inserimento bolle inizia con la ricezione della bolla di accompagnamento
in formato PDF da parte dell’ufficio supply chain. Solitamente la trasmissione della bolla
avviene 24/48h prima dell’effettiva consegna della merce. A causa delle numerose attività che
deve svolgere il riferimento materia prima (supply chain), indicativamente l’80% delle bolle
74
viene registrato solo in seguito all’effettiva consegna della merce. Quando la merce viene
consegnata, la persona di riferimento per magazzino materia prima (warehouse) riceve il
cartaceo firmato in duplice copia dal fornitore e dal vettore di trasporto, quest’ultimo scarica la
merce senza ubicarla, verifica che la merce ricevuta corrisponda con la bolla e firma il
documento. In seguito, si reca nell’ufficio supply chain per sollecitare la registrazione della
bolla indifferentemente nella versione cartacea o digitale precedentemente ricevuta. Dopo tali
azioni, il riferimento magazzino materia prima (warehouse) si reca nel suo ufficio situato
all’ingresso del magazzino per svolgere una seconda verifica delle informazioni a gestionale
con i dati cartacei firmati e stampa le etichette per poter identificare e ubicare la merce. Appone
successivamente le etichette e può posizionare la merce sugli scaffali, versandola e ubicandola
a gestionale tramite un palmare collegato con il gestionale. Se nel momento dell’inserimento
della bolla a gestionale sono presenti delle incongruenze con i dati presenti sullo stesso, è
necessario chiedere la ri-emissione della bolla da parte del fornitore, ciò provoca ulteriori
ritardi, causando occupazione di spazio aggiuntivo per merce non ubicata e la non possibilità
da parte dell’intera organizzazione di vedere a gestionale la merce e di farla avanzare
correttamente.
L’azienda presenta due macro-tipologie di materia prima: ottone e alluminio con tempistiche di
inserimento assimilabili. In totale sono presenti 13 differenti fornitori suddivisi secondo la
seguente infografica Figura 18. L’inserimento di una bolla richiede indicativamente 20’ e
giornalmente si ricevono in media 6 bolle, ciò corrisponde a circa 2h al giorno da dedicare
all’attività di inserimento, controllo e ricontatto dei fornitori relativo alle bolle di materia prima.
75
Figura 18 Infografica TC bolle Materia Prima
Le attività successive sono state un’analisi delle principali criticità da risolvere per
implementare il progetto e un brainstorming delle possibili soluzioni a tali limiti; l’analisi dei
dati riporta come un sistema automatico di raccolta, analisi e caricamento dati ridurrebbe il
carico di lavoro per diverse aree aziendali, tra cui il magazzino materia prima, l’ufficio supply
chain e l’amministrazione per la registrazione di fatture di fornitori. Per semplificare l’intero
processo è stato strutturato il lavoro da parte del magazzino materia prima, mentre il lavoro di
controllo e inserimento viene gestito da un’applicazione che comunichi con il gestionale. È
stato creato un diagramma dei casi d’uso per rappresentare ad alto livello l’approccio proposto.
76
Figura 19 Use Case Diagram TO-BE bolle Materia Prima
Come mostra la Figura 19 l’approccio proposto prevede la trasmissione di un documento
digitale da parte dei fornitori di materia prima, al momento della ricezione viene svolto
internamente un controllo automatico dei dati e in caso di correttezza dei dati essi vengono
caricati a gestionale. Il riferimento magazzino materia prima (warehouse) riceve la copia in
PDF della bolla e controlla che i dati a gestionale siano corretti; poi stampa le etichette per la
serializzazione ed ubicazione della merce. Nel momento della ricezione della merce il
riferimento controlla che il DDT e Packing List cartacei corrispondano con la merce, poi la
scarica, la etichetta e la versa immediatamente a magazzino negli scaffali preposti. Il processo
diminuirebbe significativamente il lavoro di diversi reparti, renderebbe il versamento a
magazzino pressoché istantaneo (near real-time) e ridurrebbe notevolmente il numero di errori
a gestionale.
Da queste considerazioni è nato il Lean Canvas relativo al progetto in corso.
77
Figura 20 Lean Canvas bolle Materia Prima
Come mostra la Figura 20 l’approccio prevede di risolvere i problemi di tempo perso per
l’inserimento manuale di dati a gestionale, ritardi nelle operazioni di inserimento e versamento
a magazzino, occupazione di superficie per mancata ubicazione temporanea e richiesta in
ritardo di ri-emissione bolla per errori. Sono state ipotizzate possibili alternative all’approccio
proposto, come la delega dell’intero processo al riferimento magazzino materia prima, che però
risolverebbe solo parte dei problemi riscontrati. I soggetti che trarrebbero beneficio da tale
implementazione (customer segments) sono l’ufficio supply chain, il magazzino merce in
ingresso, l’amministrazione e i fornitori di materia prima. Il progetto richiede un singolo
investimento iniziale ed il ritorno economico è misurabile attraverso i principali indicatori di
ritorno economico, tra cui ROI e payback period. Dalla Figura 20 è inoltre possibile vedere
quali siano i vantaggi riconosciuti dal sistema proposto, ovvero il controllo automatizzato degli
errori dei dati della bolla proveniente dai terzisti, la richiesta automatica di ri-emissione della
78
bolla dai fornitori ed il raggiungimento dello stato di near real-time dalla consegna della merce
al suo versamento a magazzino fisico e digitale (dati caricati a gestionale).
Verificata la validità dei vantaggi che porterebbe l’implementazione proposta, è iniziata
l’attività di sviluppo del progetto effettivo, tramite continue attività di brainstorming
individuale, con il responsabile dei sistemi informativi e con il riferimento materia prima
nell’ufficio Supply Chain. È possibile suddividere il progetto in tre eventi distinti: esternamente
i fornitori emettono i dati in un formato prestabilito, successivamente attraverso il canale di
comunicazione viene trasmesso il file e infine il file dati viene internamente controllato e
caricato il file a gestionale.
In questa fase è stata definita la roadmap del singolo intervento con relative tempistiche
per poter sviluppare le singole idee. Nella prima fase è necessario identificare tutti i dati da
dover inserire per la registrazione delle bolle, nella seconda fase è necessario definire tutti gli
standard relativi al progetto, nella terza fase bisogna creare il file modello di dati da mostrare
ai fornitori, nella quarta fase bisogna creare e presentare uno studio di fattibilità con la software
house di appoggio, nella quinta fase viene fatta sviluppare l’applicazione di caricamento dati al
gestionale aziendale, nella sesta fase bisogna creare il canale di comunicazione tra i fornitori ed
il gestionale e nella settima e ultima fase è necessario presentare e concordare il processo di
trasmissione dati con i fornitori di materia prima.
Nella prima fase è stato creato in breve tempo il primo MVP da analizzare e riadattare
al problema affrontato. Il MVP è stato inizialmente presentato al riferimento materia prima
dell’ufficio Supply Chain, poi riadattato grazie ai feedback del riferimento. In seguito a diverse
iterazioni di correzione secondo il modello Lean Innovation è stato poi presentato al direttore
Supply Chain che ha richiesto ulteriori modifiche al prototipo. Il MVP per il progetto in corso
rappresenta il modello dei dati che i fornitori devono seguire per poter inviare correttamente le
informazioni da caricare a gestionale. Il prototipo è stato creato in MS Excel in quanto
strumento semplice e facilmente modificabile. Di seguito viene presentata la versione definitiva
del MVP sotto forma di tabella EXCEL e file CVS non intestato.
Figura 21 MVP inserimento bolle Materia Prima
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Il MVP rappresenta il documento modello richiesto per i fornitori di materia prima, in
esso sono presenti le informazioni di numero di documento, data, numero di Ordine di Acquisto
(OdA), posizione, codice articolo richiesto, quantità del singolo lotto (da packing list) espressa
in kilogrammi e il valore di resa espressa in percentuale. È stato scelto il formato CVS invece
di altri possibili formati come XML, JSON o XLS in quanto è uno dei formati maggiormente
diffusi per estrapolare automaticamente dati dai principali gestionali sul mercato.
A seguito di questa fase è stata sviluppata la documentazione intera relativa al progetto
da presentare alla software house di appoggio per lo sviluppo dell’applicativo che comunichi
con il gestionale. Il documento è stato continuamente riadattato per poter rispondere alle
necessità riscontrate nel corso dello studio del progetto. Tutte le informazioni sono state caricate
sul portale della software house ed è stato aperto un ticket per poter presentare l’intero progetto
con loro. A seguito della call sono stati individuati gli ultimi punti critici relativi al progetto,
che è stato immediatamente riadattato e completato per le ultime fasi di sviluppo. In seguito, la
software house ha approvato il progetto e ha presentato il budget relativo all’applicativo. Oltre
all’interfaccia di caricamento dati la software house ha proposto un sistema di controllo
automatico e di invio mail ai fornitori nel caso in cui ci siano informazioni mancanti o errate
nel file dati. Attraverso tale soluzione nessun essere umano sarebbe coinvolto in queste prime
fasi, rendendo il processo interamente automatizzato. Come ultimo step sono stati individuati
tutte le fasi di controllo automatico e manuale sviluppando un processo standardizzato da
presentare e applicare ai diversi soggetti nel nuovo processo di inserimento dati. Il primo
controllo sincrono viene svolto automaticamente dal programma individuando campi mancanti
o formalmente errati, campi non congruenti con l’Ordine di Acquisto presente a gestionale e in
caso di errore rifiuta il file e spedisce una richiesta di correzione ai fornitori. Il processo continua
fino alla ricezione del file corretto. Il secondo controllo sincrono avviene manualmente dal
riferimento magazzino materia prima (warehouse) attraverso il controllo della bolla PDF con i
dati precedentemente caricati a gestionale, il terzo controllo sincrono avviene sempre dal
riferimento alla ricezione della merce tra la bolla cartacea e la merce effettivamente ricevuta,
mentre l’ultimo controllo avviene in maniera asincrona dal riferimento materia prima (supply
chain) tra la bolla cartacea ed i dati a gestionale. L’ultimo controllo è stato scollegato dal
processo di versamento merce a gestionale semplificando il lavoro dell’ufficio supply chain.
Nell’attesa dell’approvazione interna del budget relativo al progetto in corso, è stato svolto
parallelamente lo studio relativo alla comunicazione tra i fornitori ed il gestionale interno. Sono
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state identificate differenti soluzioni, tra cui il protocollo FTP, allegato SDI oppure una mail
dedicata. Dopo un colloquio con il responsabile IT aziendale è stata scelto l’invio del file dati
come allegato in una mail dedicata. È quindi necessario trovare un modo per scaricare
automaticamente l’allegato e caricarlo in una cartella locale che comunichi con il gestionale.
Sono state testate varie soluzioni, tra cui un’implementazione in MS Power Automate, ma la
soluzione migliore per mantenere tutte le informazioni in locale secondo le direttive del reparto
IT è stata la scrittura di un codice VBA da far girare in MS Outlook. Per poter garantire
manutenibilità del codice da parte del reparto IT è stata creata una documentazione dettagliata
per la scrittura e caricamento del codice.
Il progetto si è concluso con una retrospettiva complessiva del lavoro svolto,
individuando i punti di forza e le aree da migliorare nel lavoro svolto. In particolare, è emerso
come sia fondamentale misurare, descrivere e presentare il maggior numero di dati numerici a
supporto del lavoro per l’amministrazione.
81
4.3. Digitalizzazione Bolle da Terzisti
A seguito della conclusione del primo round di digitalizzazione è stata indetta una riunione con
il direttore supply chain per poter approvare l’esplorazione del secondo round secondo la
Figura 16. Il secondo round prevede lo studio dell’inserimento bolle relative ai semilavorati di
rientro dai terzisti, nonché la connessione delle bilance per la pesa di controllo al MES aziendale
per verificare il peso dichiarato in bolla con la merce effettivamente consegnata. Sebbene il
progetto presenti diverse similarità con il primo round, ci sono alcune diversità che rendono il
secondo progetto più complesso. Per questo la prima attività svolta è stata una prima
esplorazione ad alto livello assieme al responsabile IT, ai magazzinieri dell’area conto terzi ed
al riferimento magazzino conto terzi (supply chain). Da questa attività sono emerse le principali
criticità da risolvere e sono state ipotizzate le prime idee per lo sviluppo di un approccio
efficiente. In seguito, è stata svolta un’attività di brainstorming individuale e da ciò è stato
sviluppato un primo MVP ad alto livello per verificare la fattibilità del progetto. Il MVP è stato
presentato al riferimento magazzino conto terzi (supply chain) che ha approvato l’approccio
proposto. Successivamente è stato svolto un lavoro di affiancamento con il riferimento per poter
analizzare con maggiore dettaglio quale sia l’attuale procedura di inserimento bolle, tracciando
i comandi da utilizzare per inserire le bolle a gestionale e misurando i tempi medi di
inserimento, il numero di bolle ricevute giornalmente e il ritardo medio giornaliero per tale
operazione.
82
Figura 22 Infografica TC bolle conto terzi
È stata svolta una rielaborazione dei dati e come è possibile vedere dalla Figura 22 è emerso
che il tempo medio dedicato all’inserimento delle bolle è di 25’, tale dato comprende una prima
analisi della bolla cartacea, l’inserimento dei dati a gestionale, il controllo incrociato dei dati
con diverse schermate aperte contemporaneamente, l’aggiunta o rimozione dall’Ordine di
Produzione di fasi a seconda dell’effettivo svolgimento da parte dei terzisti, la richiesta di
ripesata da parte del magazzino l’archiviazione digitale della bolla ed il controllo finale del
riscontro della bolla negli archivi digitali aziendali. Complessivamente si ricevono all’incirca
15 bolle al giorno causando un lavoro giornaliero di circa 6h25’ per il riferimento conto terzi.
Inoltre, a causa del carico di lavoro dell’intero ufficio e a causa di consegna di bolle fuori orario
di lavoro, il 50% delle bolle viene registrato nel giorno successivo all’effettiva consegna e
avanzamento merce, disancorando i dati presenti a gestionale con il reale avanzamento di
produzione. Il resoconto dell’analisi dello stato delle cose ha prodotto un diagramma dei casi
d’uso della situazione attuale ad alto livello, descritta nella Figura 23.
83
Figura 23 Use Case Diagram AS-IS bolle Terzisti
L’attuale processo di inserimento bolle da terzisti inizia con l’ingresso della merce al magazzino
conto terzi, gli addetti magazzino terzisti (warehouse) controllano che il Documento Di
Trasporto cartaceo appena ricevuto corrisponda con la merce e appone la terza firma (oltre a
quella del fornitore e del vettore di trasporto) per validare il documento. La merce viene poi
pesata e viene stampato in foglio cartaceo contenente numero di Ordine Di Produzione e peso
registrato. La bolla e i fogli di pesata vengono consegnati all’ufficio supply chain e la merce
viene subito avanzata alla fase produttiva o di stoccaggio intermedio successivi. L'inserimento
delle bolle avviene nella maggior parte dei casi in modalità asincrona provocando
disallineamento tra i dati reali ed i dati a gestionale. In particolare, i semilavorati possono
completare fasi produttive successive senza però poter essere registrate sul MES e a gestionale.
In seguito è stata svolta un’analisi delle principali criticità dell’attuale sistema individuando le
seguenti criticità non riscontrate nel progetto precedente: la ridotta struttura aziendale dei
terzisti rispetto ai fornitori di materia prima non permette di richiedere un file dati complesso
84
da generare come un CSV, inoltre richiedere un documento aggiuntivo oltre alle bolle cartacee
obbligatorie per legge ridurrebbe notevolmente l’approvazione da parte dei terzisti;
l’inserimento delle pesate manualmente da fogli cartacei richiede inoltre molto tempo e provoca
frequenti errori che ritardano maggiormente l’inserimento dei dati. È importante sottolineare
come le bilance presenti nel magazzino terzisti siano già collegate al MES aziendale per altri
utilizzi; quindi, l’aggiunta di un modulo aggiuntivo al MES per collegare digitalmente le pesate
dei semilavorati in rientro non richiederebbe investimenti importanti. A seguito di questa fase
è stato svolto un brainstorming delle possibili soluzioni del problema affrontato, e da ciò è nato
il lean canvas del secondo progetto in analisi.
L’approccio proposto prevede di spostare l’intera attività al magazzino terzisti
riallineando le informazioni reali con i dati presenti a gestionale.
Figura 24 Use Case Diagram TO-BE bolle Terzisti
Come nel primo progetto implementato, i documenti di trasporto vengono trasmessi
digitalmente, avviene un controllo analogo alle bolle materia prima e in caso di correttezza delle
informazioni, i dati vengono caricati a gestionale. All’arrivo della merce, avviene un secondo
85
controllo tra i dati appena caricati a gestionale e la pesata effettiva, in caso di riscontro positivo
la merce viene automaticamente avanzata alla fase successiva, in caso di errori la merce viene
temporaneamente stoccata a magazzino in un’area dedicata e viene richiesto l’intervento
dell’ufficio supply chain per verificare quale sia il problema. In questo modo è possibile
sincronizzare in real-time il ricevimento merce e l’inserimento dati a gestionale ottenendo
uniformità tra le informazioni reali ed i dati digitali. È stato creato un primo MVP ad alto livello
successivamente validato dal riferimento magazzino terzisti (supply chain) e dal direttore
supply chain.
È stato svolto un affiancamento successivo con il riferimento magazzino terzisti per
poter analizzare in dettaglio quali informazioni siano necessarie per inserire automaticamente i
dati a gestionale. I risultati di tale studio hanno evidenziato che sono necessarie le informazioni
di numero DDT, data, OdA, numero di lotto necessario per recuperare le informazioni al rientro
della merce, fasi effettivamente svolte, codice articolo, quantità del singolo lotto espressa in
kilogrammi, in numero di pezzi o entrambi.
Dall’OdA è possibile ricavare il codice fornitore, l’OdP associato e anche la congruenza
con il codice articolo (primo controllo). Il numero di lotto rappresenta un numero identificativo
posto su ogni cassone o pallet per poterli riconoscere al momento della consegna e pesata
(secondo controllo) internamente. Assegnare un identificativo ai cassoni ha ricadute anche in
progetti di digitalizzazione futuri, come mostrato nella Figura 16.
La scrittura della fase svolta, come per tutti i dati in questo documento, dev’essere
registrata in un formato prestabilito, per questo in fase di presentazione con i terzisti è
necessario presentare uno standard ben definito per ogni campo da registrare. Nel caso in cui il
terzista inserisse un solo valore di quantità e non entrambi, si può lasciare l’altra casella vuota
oppure porla a zero. Il valore mancante viene ricavato dall’Odp associato all’OdA della riga.
Nel caso in cui vengano registrati entrambi i valori, si può implementare una funzione di
controllo (primo controllo) tra il peso reale del singolo lotto ed il peso teorico posto sull’OdP,
Figura 25 MVP inserimento bolle Conto Terzi
86
con una tolleranza del 5%. Per poter implementare tale soluzione è necessario dare un nome
identificativo (codice a barre+codice alfanumerico) ad ogni cassone portato ai terzisti, tale
implementazione avrebbe ricadute anche in progetti futuri. Avendo dato un nome identificativo
ad ogni cassone in rientro da Terzisti, è possibile controllare la congruenza tra la bolla ricevuta
digitalmente e la merce effettivamente ricevuta attraverso un’attività di pesata semi-
automatizzata interna t. Alla consegna della merce, i dati della bolla sono già stati ricevuti e
caricati a gestionale. La merce viene immediatamente posta sulla pesa nel magazzino Terzisti,
viene sparato il codice a barre identificativo del cassone e viene verificata la congruenza tra i
dati. Se il controllo ha esito positivo la merce può essere avanzata automaticamente alla fase
successiva, in caso contrario è necessario un intervento da parte dell’ufficio Supply Chain per
verificare il problema. Il MVP è stato presentato al riferimento magazzino terzisti che ha
approvato il lavoro finora svolto.
È stato ampliato lo studio dei benefici del progetto proposto per l’organizzazione
analizzando la fase di registrazione fatture relative al conto lavoro da parte dell’area
amministrazione. Attualmente l’addetto amministrazione fornitori crea settimanalmente diversi
documenti per poter analizzare il numero e le principali cause non registrazione fatture. Ciò
provoca una serie di problematiche, tra cui il costo del prodotto finito spesso non aggiornato,
mancati pagamenti, discordanza con il magazzino fisico a fine ano e necessità di rettifiche
inventariali.
87
Figura 26 Infografica indici area amministrazione
Com’è possibile vedere dalla Figura 26 il 90% delle fatture non registrate appartengono al
conto lavoro, all’incirca ogni mese si aggiungono 10 fatture non registrate alle precedenti con
un totale registrato a fine maggio 2023 di 42 fatture ancora da registrare che in termini di valore
rappresentano il 58% del valore totale.
È stato svolto un successivo brainstorming con l’addetto amministrazione fornitori e
con il CFO per poter trovare la migliore modalità di creazione e trasmissione dei dati da parte
dei fornitori. È stata individuata la fattura proforma come modello di ricezione dati. Attraverso
la trasmissione della fattura proforma in XML, modificabile e ri-trasmissibile molteplici volte
in caso di errori nella stesura è possibile verificare la validità delle informazioni attraverso un
applicativo simile al ciò che è stato proposto per il magazzino materia prima.
88
4.4. Unione dei progetti
A seguito di un confronto con il direttore supply chain è stato concordato di avvalorare i progetti
sinora svolti unificandoli in un unico macro-progetto. È stata creata una documentazione
comprendente entrambi i progetti sopra descritti ed è stato rianalizzato l’intero lavoro con tutte
le aree aziendali coinvolte. In particolare, sono state coinvolte le aree supply chain e
amministrazione per rianalizzare le possibili ricadute che il progetto proposto può avere. Il
progetto è stato presentato al responsabile materia prima (supply chain) e al responsabile terzisti
(supply chain) per rivalutare l’unione dei due progetti precedentemente presentati. In seguito,
è stato ripresentato il progetto all’addetto amministrazione fornitori identificando le singole
attività svolte a seguito dell’inserimento dati di bolla da parte dell’ufficio supply chain. Il
risultato è stato un lavoro sinergico di differenti aree aziendali per cercare di avere un flusso
delle informazioni snello e continuo.
Per poter garantire maggiore validità del progetto è stato richiesto uno studio di ritorno
economico dell’investimento. Sono stati individuati i principali indicatori di ritorno economico
quali Return On Investment (ROI) e payback period.
Figura 27 Infografica KPI economici
89
Come riporta la Figura 27 è necessario un investimento iniziale da compiere nell’anno zero.
Dal credito d’imposta 4.0 è possibile recuperare il 20% dell’investimento.
Annualmente l’azienda deve sostenere un costo di manutenzione progressivamente
decrescente. Nel caso in cui ci fosse una persona che svolgesse interamente tali attività, con un
RAL annuo maggiorato ogni anno del 3% causa inflazione, il progetto eliminerebbe tale costo
per l’azienda. Il breakeven point per rientrare dell’investimento è di 8 mesi, ciò significa che in
meno di un anno è possibile rientrare dell’investimento. Il primo anno si registrerebbe un ROI
del 35% mentre dopo cinque anni si avrebbe un ROI del 110%.
Successivamente è stato presentato lo studio di fattibilità definitivo al CFO e al direttore
supply chain per validare il progetto definitivo. l’attività si è conclusa con l’approvazione del
progetto da tutte le aree aziendali coinvolte.
In conclusione, il progetto ha portato allo sviluppo di due digital twins delle bolle di
trasporto, ovvero dei gemelli digitali dei documenti cartacei che permettono di validare, caricare
e automatizzare l’attività di data entry. I vantaggi per l’organizzazione sono molteplici, dalla
riduzione delle attività lavorative, alla presenza di dati puliti e sincronizzati a gestionale, fino
all’avanzamento pressoché istantaneo della merce alla fase/posizione successiva. I benefici
sarebbero rivolti ai magazzini materia prima e conto lavoro, all’ufficio supply chain, all’area
amministrazione e all’intera organizzazione.
90
Conclusioni
A seguito di questa esperienza, è evidente come l’attività di digitalizzazione aziendale non sia
esclusivamente basata sull’introduzione di una singola tecnologia abilitante, anzi questa
rappresenta solo il risultato finale di un processo più complesso. Ogni singola attività di
miglioramento inoltre dovrebbe far parte di una visione a lungo termine che porti resilienza e
valore per le persone e per l’organizzazione nel tempo. La metodologia operativa di Lean
Innovation Management è uno strumento valido per guidare l’organizzazione ad un
miglioramento continuo progressivo e trasversale ad ogni area aziendale. Attraverso il
susseguirsi di fasi di lavoro cicliche e incrementali, basate sull’utilizzo di strumenti operativi
provenienti da differenti modelli di innovazione, è possibile gestire il processo di sviluppo di
soluzioni creative, bilanciando un approccio human-centric con analisi e indicatori di processo
ad alto livello. In aggiunta, una figura nell’impresa la cui attività primaria è analizzare e
migliorare i processi aziendali attraverso l’uso della metodologia proposta, può motivare,
trasmettere e guidare le persone ad un progresso tecnologico e sociale, portando gradualmente
l’organizzazione ad un vantaggio economico rispetto ai propri concorrenti. L’introduzione di
digital twins nell’area supply chain porta all’eliminazione dell’attività di data entry da parte
dell’ufficio, riducendo tempi di esecuzione e numero di errori presenti negli applicativi
aziendali. Da questa soluzione traggono beneficio numerose aree aziendali, tra cui la
produzione, la supply chain, l’amministrazione e molte altre, rendendo l’intero processo
logistico-produttivo più snello. Dati anche gli studi relativi ai tempi e ai costi risparmiati, i
progetti hanno ottenuto l’approvazione da parte dell’azienda, che ha richiesto di continuare gli
studi relativi all’intera roadmap di digitalizzazione della supply chain. È quindi evidente come
l’introduzione di tecnologie tipiche dell’industria 4.0 possono effettivamente supportare
l’organizzazione eliminando le attività umane prive di valore aggiunto riducendo notevolmente
i costi aziendali e aumentando la soddisfazione dei clienti. L’introduzione di un pensiero di
miglioramento continuo e lo sviluppo di una strategia di digitalizzazione a lungo termine può
91
far raggiungere gli obbiettivi aziendali di competitività, resilienza, sostenibilità e sociali, grazie
ad un modello operativo applicabile universalmente.
Ringraziamenti
Il progetto ha richiesto complessivamente tre mesi per poter essere completato e senza il pieno
supporto dei colleghi d’ufficio ciò non sarebbe mai stato possibile. Ringrazio il gruppo MPJ
per avermi ospitato in questa esperienza fortemente istruttiva e ringrazio tutti i colleghi
dell’ufficio supply chain per avermi supportato e guidato in questo percorso verso il mio futuro.
Ringrazio inoltre il mio docente relatore per il supporto dato in questo percorso.
92
Indice delle Figure
Figura 1 Timeline dei modelli di innovazione ......................................................................... 10
Figura 2 Ciclo Business Process Reengineering ...................................................................... 13
Figura 3 Ciclo di sviluppo Lean ............................................................................................... 23
Figura 4 Diagramma Desiderabilità, Profittabilità e Fattibilità ................................................ 27
Figura 5 Ciclo di sviluppo dei modelli DT e DS ..................................................................... 28
Figura 6 Modelli di ispirazione per la metodologia Agile ....................................................... 38
Figura 7 Ciclo di sviluppo Agile .............................................................................................. 39
Figura 8 Ciclo di sviluppo DevOps .......................................................................................... 42
Figura 9 Build-Measure-Learn Feedback Loop ....................................................................... 47
Figura 10 Sankey chart modelli d'ispirazione a Lean Innovation Management ...................... 53
Figura 11 Ciclo di Sviluppo Lean Innovation Management .................................................... 56
Figura 12 Current State map MPJ Group (Value Stream Map) ............................................... 61
Figura 13 Legenda mansioni Uff. Supply Chain ...................................................................... 66
Figura 14 Tabella mansioni Uff. Supply Chain ....................................................................... 67
Figura 15 Matrice impatto-sforzo ............................................................................................. 70
Figura 16 Roadmap digitalizzazione supply chain ................................................................... 71
Figura 17 Use Case Diagram AS-IS bolle Materia Prima ........................................................ 73
Figura 18 Infografica TC bolle Materia Prima ......................................................................... 75
Figura 19 Use Case Diagram TO-BE bolle Materia Prima ...................................................... 76
Figura 20 Lean Canvas bolle Materia Prima ............................................................................ 77
Figura 21 MVP inserimento bolle Materia Prima .................................................................... 78
Figura 22 Infografica TC bolle conto terzi ............................................................................... 82
Figura 23 Use Case Diagram AS-IS bolle Terzisti .................................................................. 83
Figura 24 Use Case Diagram TO-BE bolle Terzisti ................................................................. 84
Figura 25 MVP inserimento bolle Conto Terzi ........................................................................ 85
Figura 26 Infografica indici area amministrazione .................................................................. 87
Figura 27 Infografica KPI economici ....................................................................................... 88
93
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Industry 4.0, an initiative from Germany, has become a globally adopted term in the past decade. Many countries have introduced similar strategic initiatives, and a considerable research effort has been spent on developing and implementing some of the Industry 4.0 technologies. At the ten-year mark of the introduction of Industry 4.0, the European Commission announced Industry 5.0. Industry 4.0 is considered to be technology-driven, whereas Industry 5.0 is value-driven. The coexistence of two Industrial Revolutions invites questions and hence demands discussions and clarifications. We have elected to use five of these questions to structure our arguments and tried to be unbiased for the selection of the sources of information and for the discussions around the key issues. It is our intention that this article will spark and encourage continued debate and discussion around these topics.
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The Digital Supply Chain is a thorough investigation of the underpinning technologies, systems, platforms and models that enable the design, management, and control of digitally connected supply chains. The book examines the origin, emergence and building blocks of the Digital Supply Chain, showing how and where the virtual and physical supply chain worlds interact. It reviews the enabling technologies that underpin digitally controlled supply chains and examines how the discipline of supply chain management is affected by enhanced digital connectivity, discussing purchasing and procurement, supply chain traceability, performance management, and supply chain cyber security. The book provides a rich set of cases on current digital practices and challenges across a range of industrial and business sectors including the retail, textiles and clothing, the automotive industry, food, shipping and international logistics, and SMEs. It concludes with research frontiers, discussing network science for supply chain analysis, challenges in Blockchain applications and in digital supply chain surveillance, as well as the need to re-conceptualize supply chain strategies for digitally transformed supply chains.
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A leading MIT social scientist and consultant examines five professions--engineering, architecture, management, psychotherapy, and town planning--toshow how professionals really go about solving problems.
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This paper describes a project management model named Converge, that combines Agile, Lean Startup and Design Thinking with the aim of producing user-centered software and sustainable innovation through empathy with users. The model is based on previous works combining the aforementioned methodologies and adjusted considering needs that arose from teams inside the lab, observed empirically. In order to test the method’s validity in a real project, an undergraduate team part of an experimentation lab followed the proposed model to guide the development of a homonymous data storage app. The app was built in 8 weeks and, at the time of release, 80 % of testers considered it a better solution compared to ones they already used. Overall test results suggest that it is productive to combine the methodologies. The model met its aim since it guided the development of a novel software solution highly regarded by users.
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