dell'Avvocata, Don Benedetto e S. Gennaro. Un incontro di noi due, il piemontese e il napoletano, il poeta e l'etnologo, nella apparente casualità di una iniziativa editoriale: un incontro le cui ragioni inizialmente sfuggiro-no a me molto più che a lui, e che solo dopo la sua morte comincia-rono a proporsi in me, dapprima come vago ritornante ricordo, e quasi come oscuro debito contratto con lui" 1 . In questo passo tratto da un inedito demartiniano recuperato da Pietro Angelini, curatore dell'epistolario Pavese-de Martino, inerente la loro colla-borazione alla Collana Viola della Casa editrice Einaudi, emerge con estrema chiarezza come de Martino avesse colto, anche se con qualche ritardo per sua stessa ammissione, la natura profonda della poetica pavesiana, il suo irrinunciabile radicamento ai luoghi e come questa scoperta gli fosse servita ad illuminare persino la radice ultima del proprio interesse per le culture tradizionali del Sud, fossero esse appartenenti alla cultura contadina oppu-re, come emerge con evidenza da questo passo, interne alla cultura urbana, ma nelle molte, avvincenti contraddizioni che la caratterizzano. Il poeta e l'etnologo dunque, il piemontese e il napoletano, la campagna ancestrale e la città aperta alla modernità. De Martino mostra di cogliere un tratto tipico della scrittura e dell'ideolo-gia pavesiana: la radicalità del suo rapporto ai luoghi, alle radici culturali e all'innovazione culturale, la relazione tra arcaicità e modernità che anima tutta la sua 'mitologia letteraria'. 1 Pavese C. -de Martino E., La collana viola: lettere 1945-1950, a cura di Piero Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 192.